Mese: giugno 2012

La biblioteca di RU e dintorni: L’ESSENZA DEL COACHING – A. Pannitti e F. Rossi

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Settimana scorsa sono tornato con la rubrica “il vocabolario delle risorse umane”, questa settimana voglio riprendere anche l’altra rubrica lanciata qualche mese fa dal titolo “la biblioteca di RU e dintorni”, ovvero consigli personali di lettura per chi opera nelle risorse umane o per chi ha interesse a scoprire questo fantastico mondo.

Il libro che presento questa settimana tratta di coaching ovvero il metodo per scoprire le potenzialità e sviluppare l’eccellenza dell’individuo, si intitola L’ESSENZA DEL COACHING edito da Franco Angeli ed è stato scritto a quattro mani da Alessandro Pannitti e Franco Rossi che sono stati, tra le altre cose, i miei insegnanti nel corso che ho frequentato attraverso la scuola INCOACHING e che mi ha portato al raggiungimento del diploma di coach professionista.

Conosco quindi molto bene Alessandro e Franco tanto da potermi permettere di consigliare spassionatamente la lettura di questo testo che contiene in se il metodo completo da loro insegnato nei corsi che tengono in varie parti d’Italia.

Alessandro Pannitti è laureato in Scienze e Tecniche Psicologiche, ha maturato una lunga esperienza aziendale, prima come manager e poi come consulente commerciale. Dal 2009 è Vice Presidente dell’Associazione Italiana Coach Professionisti.

Franco Rossi è laureato in Scienze Motorie, dopo una significativa esperienza nel mondo sportivo si dedica a percorsi di sviluppo per privati ed alla formazione aziendale presso PMI e multinazionali. Dal 2009 è coordinatore dell’Associazione Italiana Coach Professionisti nelle Marche.

Come ho anticipato, Alessandro e Franco sono i fondatori di INCOACHING, scuola di formazione e società di servizi legati al coaching. Entrambi sono docenti del Master Universitario in Coaching –  Corso di alta formazione universitaria riconosciuto dal MIUR – organizzato da SEAFO Scuola Europea di Alta Formazione in collaborazione con INCOACHING.

La vita in se è piena di cambiamenti spesso anche repentini, affermazione ancor più vera se la parametrizziamo a ciò che sta succedendo oggi con la crisi economica in atto; questi cambiamenti sempre più veloci richiedono da parte nostra una pari velocità di adeguamento che non sempre e non tutti riusciamo ad avere. Il Coaching è un metodo di sviluppo a disposizione dell’individuo o di un’organizzazione in grado di aiutarci a gestire in maniera efficace queste fasi di cambiamento e/o desideri di miglioramento del nostro status attuale (sia esso personale che lavorativo).

Occorre anche dire che oggi troppo spesso si confonde il coaching con metodi motivazionali portati avanti da fantomatici guru che, a mio parere, non fanno altro che inquinare la percezione comune di cosa sia realmente il coaching; Pannitti e Rossi da sempre invece si richiamano alla vera essenza del coaching seguendo il metodo anglosassone dell’Evidence Based Coaching che nasce all’interno di una comunità scientifica composta da docenti universitari, ricercatori e coach professionisti che intendono far crescere il coaching in ambito scientifico.

Il testo quindi si rivolge a tutti coloro che vogliono conoscere ed apprendere le basi di questo metodo in modo rigoroso ed esauriente e che si fonda su elementi caratterizzanti di cui spesso ho parlato in altri post scritti sul tema: l’instaurazione di una relazione facilitante tra il coach ed il cliente (coachee), lo sviluppo del potenziale umano e la creazione di piani d’azione autodeterminati finalizzati al raggiungimento di obiettivi concreti e specifici.

Insomma un testo che non può mancare nella libreria di un addetto ai lavori ma che è altresì di grande aiuto per chi ha interesse a percorrere la strada del miglioramento personale. Un successo annunciato tanto che a neanche un mese dall’uscita del libro, Franco Angeli ha già dato il via alla prima ristampa.

Buona lettura!

Il vocabolario delle Risorse Umane: ASSESSMENT

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Riprendo dopo un po’ di tempo la rubrica intititolata “Il vocabolario delle Risorse Umane” in cui tento di spiegare in forma semplice le parole tipiche del mio mestiere e di tutti coloro che operano nelle risorse umane.

Oggi è la volta di della parola assessment; chissà quante volte vi sarà capitato di sentirla, o magari siete stati voi stessi parte di un “assessment center”, forse anche inconsapevolmente.

Ma andiamo con ordine, per prima cosa occorre dire che la parola assessment deriva dal latino “assidere” ovvero “sedere in qualità giudice”, parliamo infatti di un processo di valutazione complessiva della persona che può essere utilizzato sia in psicologia clinica che nella psicologia delle risorse umane; in questo ultimo caso il processo viene utilizzato per la valutazione e conseguente selezione dei candidati e per la valutazione dei dipendenti in modo da selezionare le figure maggiormente adatte per uno sviluppo di carriera.

Normalmente il termine assessment viene utilizzato nei processi selettivi di gruppo prendendo il nome di “assessment center”, all’interno di questi colloqui di gruppo, i vari candidati vengono esaminati verificandone il loro comportamento all’interno del gruppo stesso, simulando in un certo qual modo, la vita lavorativa quotidiana. Ciò serve per far emergere eventuali criticità di interfacciamento con le altre persone o al contrario per mettere in evidenza capacità di relazione, leadership e di problem solving. In questi casi il selezionatore difficilmente interviene nella discussione ma si pone come osservatore annotando i comportamenti dei vari candidati e le dinamiche di gruppo che si vengono ad instaurare.

A questa tipologia si affianca l’assessment individuale, le motivazioni all’uso sono le medesime elencate per l’assessment center, quello che cambia è il processo; mentre l’assessment center è utile per valutare le dinamiche di gruppo con l’assessment individuale si pone l’accento sulle caratteristiche del singolo andandone ad esaminare il lato psicoattitudinale.

In questi casi vengono chiaramente somministrati dei test di personalità e dei questionari comportamentali per avere maggiori informazioni sulla persona, questo consente al selezionatore di avere anche indicazioni di natura scientifica, depurando il giudizio da eventuali condizionamenti soggettivi che comunque esistono (diverse ricerche testimoniano che spesso il selezionatore è condizionato nella valutazione da numerosi fattori connessi alle caratteristiche demografiche del candidato quali: il genere, la provenienza etnica, l’età, ecc.) . Anche nell’assessment individuale si procede con delle simulazioni che richiamano a specifiche situazioni lavorative che potrebbero verificarsi nel caso la persona venga poi selezionata per il ruolo a cui si è candidato; ciò consentirà di rilevare la presenza o meno nella persona di competenze adeguate a ricoprire tale ruolo anche attraverso la presentazione di casi aziendali a cui trovare soluzioni.

Terminati entrambi i processi, viene redatto un report da parte del selezionatore che presenta al committente per la selezione finale, difficilmente chi fa selezione è anche colui che decide chi assumere, spesso suggerisce pareri e da consigli sulle figure più interessanti, presentando una rosa di candidati ideali, ma la scelta finale è sempre demandata al Direttore del Personale, nel caso sia presente, o a chi inizialmente ha avviato il processo selettivo.

Alla prossima!

RICAMBIO GENERAZIONALE: opportunità o minaccia?

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Avevo anticipato che sarei tornato sull’argomento dell’avvicendamento generazionale in azienda ebbene eccomi qui. Qualcuno potrebbe obiettare affermando “ma cosa c’entra con le Risorse Umane?” Crescere i propri figli e prepararli al passaggio di consegna in azienda non è forse esso stesso esempio di gestione delle persone? Persone a cui si tiene particolarmente: la propria figlia o il proprio figlio.

Il passaggio di mano in azienda è, oggi ancor più di ieri, un passaggio cruciale, che può decretare la crescita ed il successo o il naufragio di un impresa; un argomento di cui si parla continuamente: nei media, nei libri, si organizzano convegni e corsi in materia, ma che difficilmente mostra esempi virtuosi, tanto che spesso si suole dire che “la prima generazione crea, la seconda consolida, la terza distrugge”.

La mia esperienza mi porta a dire che troppo spesso già la seconda generazione distrugge tutto quanto di buono è stato costruito dalla prima, ma perché avviene questo?

Spesso la colpa, inconsapevole, è proprio dei padri, memori delle difficoltà affrontate e spesso delle privazioni avute per realizzare il sogno, vogliono evitare a tutti i costi che le medesime privazioni siano patite dai figli, il risultato? Figli che crescono viziati, con tutto a disposizione, dove il top diventa abitudine e routine ed il significato della parola sacrificio è raramente conosciuto. Il secondo errore è una conseguenza del primo, ovvero quando arriva il momento di far entrare i figli in azienda, anziché farli partire da posizioni inferiori che gli consentirebbero di farsi le ossa ed accumulare esperienza, vengono immediatamente inseriti in posizioni dirigenziali pur non avendo minimamente le competenze per ricoprire tali ruoli e se commettono errori vengono messi al pubblico ludibrio dal genitore, delegittimandoli davanti a tutti i dipendenti; ne consegue la totale perdita di credibilità nei confronti dei dipendenti stessi.

Leggerezze che purtroppo, inconsapevolmente, portano alla distruzione di quanto creato, proprio da parte di coloro che hanno costruito con il loro genio l’impresa.

Spesso è vero anche il contrario, figli capaci e con brillanti idee innovative, relegati al vecchio che passa, dai padri che non vogliono sentirne di mollare lo scettro.

Non è facile trovare soluzioni, non è un caso infatti che in Europa due aziende su tre chiudono nei 5 anni successivi al passaggio generazionale e solo una impresa su tre arriva alla terza generazione, con il risultato che milioni di posti di lavoro vengono letteralmente gettati alle ortiche. Per invertire la tendenza occorre che l’imprenditore, se non riesce a farlo da solo, guardi oltre lasciandosi aiutare da chi, esternamente, è in grado di vedere le cose come stanno realmente.

Un team di consulenti che sappiano agire ognuno nel proprio settore (finanza, commerciale, risorse umane, ecc.), ad esempio fare del coaching sui figli e sul genitore è una attività che può sicuramente aiutare a superare blocchi e trovare soluzioni a problematiche che possono sembrare insormontabili.

Quale quindi la risposta alla domanda iniziale? Personalmente ritengo il passaggio generazionale una grandissima opportunità non solo di mantenimento ma di crescita vera e propria dell’azienda davanti alle nuove sfide, a patto che si seguano i giusti passaggi e che, nel caso non si riesca, ci sia la maturità di scegliere di avvalersi di professionisti in grado di evitare l’ecatombe.

Alla prossima!!

Contratto di Apprendistato: che sia la volta buona

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Lo scorso 29 Aprile sono stato invitato come Vice Presidente di AIDP Marche a fare da mediatore a Bologna ad un convegno in cui si è discusso del nuovo contratto di apprendistato o meglio del rilancio dello stesso tentato dalla riforma del lavoro edita dal ministro Fornero.

Tra gli invitati anche Simonetta Cavasin, General Manager di OD&M Consulting, che ha presentato i risultati di una ricerca sull’apprendistato fatta su un campione di 109 aziende e l’Avv. Giampiero Falasca partner dello studio DLA Piper che si è addentrato sugli aspetti della normativa legato all’apprendistato professionalizzante in somministrazione.

Il contratto di Apprendistato è stato forse l’unico punto della riforma dove tutti gli attori al tavolo delle trattative si sono trovate concordi: Governo, Sindacati e Confindustria. L’uso dello strumento, molto sottovalutato dalle imprese sino ad oggi, viene oggi rivalutato come mezzo principale di accesso al mercato del lavoro per i giovani; la normativa di riferimento è il Testo Unico approvato con il decreto legislativo n°167/2011 a cui la riforma in corso di approvazione alle camere apporterà alcune modifiche, quali la durata minima del contratto stesso che sarà di 6 mesi, il divieto di somministrare lavoratori in apprendistato con contratto di somministrazione a tempo determinato.

Giusto per un breve riassunto il contratto di apprendistato potrà essere di tre tipologie:

1)   Apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale

Pensato per contrastare l’abbandono scolastico, attraverso il coinvolgimento dei giovani in percorsi di alternanza tra istruzione e lavoro che portano all’ottenimento di una qualifica. Possono essere assunti in questo modo i giovani dai 15 anni compiuti fino al giorno di compimento del 25 anno di età.

2)   Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere

E’ il contratto di apprendistato per eccellenza, quello che, riprendendo il mio post di un paio di settimane fa, permetterà a molti giovani di addestrarsi in particolari attività professionali, oggi spesso abbandonate, ed al conseguimento della relativa qualifica.

Può essere usato in tutti i settori (anche nel pubblico) e prevede l’assunzione di giovani dai 18 ai 29 anni di età. In alcuni casi si è parlato anche della possibilità di assumere con questo contratto anche i lavoratori in mobilità, rimane il buco legislativo se siano tutti i lavoratori in mobilità o solo quelli che rientrano nel range della legge; la giurisprudenza ad oggi sembra seguire più questo secondo filone.

3)   Apprendistato di alta formazione e ricerca

Il contratto punta a far ottenere un titolo scolastico superiore, un titolo universitario, un dottorato di ricerca, un titolo di specializzazione tecnica, il praticantato per l’accesso alle professioni che prevedono l’iscrizione ad un albo professionale. Anche in questo caso possono essere assunti giovani dai 18 ai 29 anni.

Voglio tornare ai risultati della ricerca di OD&M Consulting che a mio parere sono estremamente interessanti, emerge infatti che il 64% delle aziende intervistate ha assunto con contratto di apprendistato professionalizzante a partire del 2003, soprattutto per inserire i giovani tra i 21 ed i 25 anni; un dato questo estremamente interessante che dimostra la bontà del contratto in questione.

Lascia invece dei dubbi sulle reali motivazioni all’uso dello strumento da parte delle imprese, il dato che evidenzia come nell’89% dei casi, ovvero la stragrande maggioranza, le aziende ne hanno usufruito per i vantaggi economici che ne traggono (decontribuzioni, possibilità di assunzioni a livelli inferiori rispetto a quello finale) più che per reali esigenze formative dei giovani (solo il 34%). Proprio questo dato mi fa sorgere la domanda: le aziende ci credono realmente? Oppure è la solita scappatoia per spendere meno ed ottenere di più? Non vado oltre.

Il 50% delle aziende ha inserito gli apprendisti in produzione, il 34% nell’area tecnica, il 27% nell’area amministrazione e finanza; un dato che mette ulteriormente in evidenza come questo sia un contratto fatto ad hoc per imparare un mestiere in particolare manuale ed artigianale.

Dato molto interessante è quello che ci dice che il 77% delle aziende intervistate dichiara di aver assunto oltre il 90% degli apprendisti con contratto a tempo indeterminato, dimostrazione lampante e forse una risposta alle mie domande sopra, che il contratto di apprendistato serve realmente ad intraprendere la strada di ingresso al mondo del lavoro ed è un ottimo strumento di placement.

Succede però che, anche se pochi, ci sono comunque alcuni giovani che nonostante siano in apprendistato, mollano prima che il contratto arrivi al suo naturale compimento; il 28% per una occupazione più interessante ed un altro 28% per una occupazione più remunerativa, dimostrando di non credere loro stessi nel percorso formativo intrapreso.

Chiudo con un’ultima annotazione che riprende, come dicevo all’inizio, il mio post di qualche settimana fa dal titolo “Elogio dell’Artigiano”: una ricerca di Confartigianato del 2010 dice che su 550.000 nuove assunzioni di personale specializzato nelle PMI ben 147.250 sono risultate inevase perché “ci sono poche persone che esercitano la professione”, intesa come mancanza di giovani che hanno voglia di sporcarsi le mani, mestieri snobbati sino ad oggi che non possiamo più permetterci di snobbare vista la crisi ed il livello di disoccupazione giovanile; l’uso del contratto di apprendistato è lo strumento migliore per rilanciare l’occupazione dei giovani e colmare questo deficit di professionalità.

Alla prossima!