Mese: aprile 2013
Che capo sei?
Ogni “capo” ha un suo stile di leadership, ognuno ha un suo modo di interfacciarsi con i propri collaboratori e ritiene che il suo sia il migliore possibile; in realtà tutti questi stili possono essere raccolti in quattro macro tipologie:
– Il Capo “tiranno”
– Il Capo “seduttore”
– Il Capo “democratico”
– Il Capo “figlio dei fiori”
Vediamoli uno ad uno
Il Capo TIRANNO
E’ il capo classico, quello che viene incarnato dalla stragrande maggioranza dei leader e degli imprenditori; non ci sono possibilità di contraddittorio si fa quello che dice lui e basta. E’ un pò lo stile con cui siamo cresciuti, i genitori che ci hanno sempre detto cosa dovevamo fare, gli insegnanti che dicevano cosa era giusto e cosa sbagliato, il periodo del militare (per chi come me lo ha fatto) in cui si eseguivano gli ordini e stop. Ecco questo del militare è l’esempio migliore, in questo stile di leadership infatti il capo comanda letteralmente e chi è sotto deve ubbidire senza se e senza ma. Chi applica questo stile ha l’errata convinzione di avere tutto sotto controllo, si perchè quando c’è il capo tutti sono a testa bassa e dicono si, salvo poi, una volta girate le spalle, fare l’esatto contrario, sentirsi pieni di risentimento ed al massimo fornire prestazioni scadenti. Il motivo è semplice lo staff si demotiva se si sente sempre e solo dire cosa deve fare, anche se ha idee alternative magari valide, evita accuratamente di metterle sul piatto perchè tanto sa che non sarebbe ascoltato.
Giudizio personale: lo stile di leadership peggiore in assoluto.
Il Capo SEDUTTORE
Il tipo di capo che è un derivato del primo, infatti è leggermente più subdolo, finge di essere democratico e di ascoltare salvo poi presentare la sua idea e con modi affabili tenta di convincere tutti che è la migliore possibile. Chiaramente chi è parte dello staff se ne guarda bene dal contraddirlo ben sapendo che in realtà, dietro quella finta disponibilità, in realtà si nasconde un capo tiranno. Di conseguenza alla fine, rispetto al punto uno cambia ben poco, lo staff esegue comunque quello che è stato deciso dal capo e non apporta alcuna idea.
Giudizio personale: uno stile di leadership veramente viscido.
Il Capo DEMOCRATICO
Il tipo di capo che tutti vorremmo, disponibile alla discussione ed alla valutazione di idee altrui, che vaglia attentamente verificando tutte le possibili implicazioni, sempre pronto a rimettersi in discussione nel caso subentrino nuove idee. I contro di questo stile sono i tempi, si rischia di avere tempi biblici nelle decisioni con il timore di sfociare nella indecisione totale.
Giudizio personale: lo stile migliore possibile tra i quattro.
Il Capo FIGLIO DEI FIORI
Il tipo di capo che sembra democratico ma in realtà tende a declinare la propria responsabilità lasciando massimo spazio ai collaboratori inconsapevole che comunque alla fine la responsabilità degli scarsi risultati ricadrà su di lui; parte con buone intenzioni ma così facendo lascia un vuoto decisionale e di coordinamento che disorienta i dipendenti, che si muovono in ordine sparso spesso pestandosi i piedi l’un l’altro. Inoltre il dipendente si sente obbligato a doversi prendere responsabilità senza avere la possibilità di scegliere di farlo, il risultato è che non sarà mai motivato al 100%.
Giudizio personale: anarchia totale.
Alla fine vi domanderete, ma allora non esiste uno stile di leadership da seguire? In realtà, come ci dice il buon John Whitmore uno dei padri fondatori del Coaching, c’è una quinta via ed è quella del LEADER COACH, che attraverso l’uso del coaching e le domande consente al dipendente di prendere coscienza di ciò che va fatto e delle azioni da fare per portalo a termine, coinvolgimento massimo quindi. Dall’altra parte ricevendo risposte alle sue domande il capo è sempre a conoscenza della situazione, non solo, acquisisce anche il modo con cui le cose saranno portate avanti e le idee che ci sono alla base.
La conseguenza è avere dipendenti realmente coinvolti e motivati perché protagonisti al 100% nel processo decisionale e di responsabilizzazione, una responsabilità che non viene imposta dall’alto ma acquisita autonomamente dal dipendente.
Alla prossima!!
Un’Italia a due velocità
Alla luce degli ultimi avvenimenti politici, il balletto messo in scena per tentare di dare un governo alla nazione, naufragato clamorosamente; l’incapacità delle forze politiche neoelette di scegliere un nuovo Presidente della Repubblica, il sacrificio enorme di un vecchio saggio come Napolitano che a 87 anni ha dovuto, rinunciare al meritato riposo per fare da pacere e risolvere la questione, come un nonno con i suoi nipotini bizzosi; torno a parlare di un Paese che sembra talmente immaturo nella sua classe dirigente, tanto da non rendersi conto che il tempo scorre inesorabilmente e che per ogni minuto perso: aziende, persone, famiglie intere rischiano di ritrovarsi sul lastrico.
Spesso parliamo delle differenze tra noi ed altri paesi europei in primis la Germania, che nonostante la crisi, sembra barcamenarsi sicuramente meglio di noi. Siamo d’accordo, tra noi ed i teutonici non è mai corso buon sangue, sin dall’epoca romana ed anche oggi, quando sento in tv giornalisti come Tobias Piller del Frankfurter Allgemeine Zeitung che non perdono occasione per denigrare il nostro Paese con un aria strafottente, provo un certo fastidio per non dire peggio.
Occorre però essere onesti nel riconoscere alla Germania una forte determinazione e serietà nel portare avanti, riforme (anche impopolari) basate su larghe intese, una industria veramente innovativa e di qualità, una grande voglia di integrazione dopo la caduta del muro di Berlino, quando si sono incontrati due popoli seppur della stessa origine, profondamente diversi sia come filosofia di vita che come ricchezza personale.
Ecco da qui voglio partire, al contrario dei tedeschi l’Italia è da sempre un paese diviso a metà con un centro nord abbastanza uniforme su un livello di servizi, industria, efficienza sicuramente accettabile ed un centro sud che funziona esattamente al contrario. Premetto che il mio non è un discorso razzista, tutt’altro anche perchè mi trovo esattamente a metà essendo Marchigiano, la mia è una dichiarazione bastata sui fatti e sui numeri.
Su tutti due dati che mi interessano particolarmente, occupandomi di lavoro e risorse umane, se guardiamo il tasso di disoccupazione relativo al 2012 emerge che il centro nord si attesta su una media del 7,26% con picchi positivi del 5% in Trentino Alto Adige, mentre al centro sud la disoccupazione si attesta su una media del 15,16% con picchi negativi in Campania e Calabria del 19% ed in Sicilia del 18%.
Capite quindi che nel dato medio si evidenzia praticamente una disoccupazione doppia tra le due Italia; la differenza la si trova anche nelle politiche attive al lavoro, come evidenziavo nel mio post Rapporto 2012 sull’industria Marchigiana ci sono tre Regioni del nord come Piemonte, Lombardia e Veneto che si spendono molto in questo senso contrariamente alle altre parti del Paese che continuano a limitarsi a politiche passive ed a finanziare formazione inutile.
Questi sono solo due dati del settore di mio interesse, ma non è difficile trovarne altri che testimoniano questa lontananza tra le due parti del Paese e l’incapacità della politica di chiudere il gap, esattamente come hanno fatto i tedeschi una volta che si sono uniti.
Credo che la politica debba ripartire da qui e lo debba fare con estrema urgenza, lasciando da parte i giochetti di palazzo e gli interessi personali, per dedicarsi finalmente allo sviluppo del Paese, rimanere in questo stato di stallo non può far altro che peggiorare le cose. Dobbiamo renderci conto che la crisi ha velocizzato cambiamenti che avremmo, in parte, già dovuto mettere in atto da tempo; oggi dobbiamo farli tutti e con estrema urgenza.
Alla prossima!
I HAVE A DREAM…. RAGAZZI VINCENTI!!
Questa volta voglio parlarvi dei giovani, la gioventù di oggi spesso viene bistrattata e definita molle e bambocciona, priva di valori e poco disposta al sacrificio.
Devo ammettere che spesso mi imbatto in questo tipo di figure ed a malincuore mi ritrovo a dover dare ragione a quelle definizioni date spesso da personaggi anch’essi quantomeno discutibili . Generalizzare però è una brutta cosa ed attraverso il mio modo di vedere il bicchiere mezzo pieno anziché mezzo vuoto, cerco di individuare le cause di questa situazione e senza tanta difficoltà ammetto che la colpa non è loro ma nostra, ovvero della mia generazione, che evidentemente non è stata capace di trasmettere fino in fondo quei valori che genitori e nonni ci hanno tramandato.
Loro, i ragazzi, sono persone come noi e come noi imparano da quello che sono le loro esperienze di vita; se da un lato la società offre loro molte più opportunità rispetto ai miei tempi, è indubbio che dall’altro queste opportunità maggiori sono controbilanciate da difficoltà superiori: famiglie spesso divise, la necessità di crescere in fretta ed un sistema educativo non proprio esemplare, uniti a momenti di forte incertezza come quelli che stiamo attraversando; sono un macigno sopra le spalle dei giovani che risulta difficile da trasportare.
In questo contesto, un ruolo primario educativo e formativo lo ricopre lo sport, lo sport sano chiaramente, quello dei risultati raggiunti col sudore sulla fronte, non quello delle vittorie a tutti costi imbottiti di doping; lo sport degli esempi e delle bandiere, non quello del miglior offerente, lo sport sincero fatto con il cervello e soprattutto con il cuore, non quello falsato delle scommesse.
Voglio raccontarvi la storia di un gruppo di ragazzi, giocatori di basket tra i 18 ed i 19 anni, nel pieno della loro maturazione. Ragazzi che come i loro coetanei, studiano e si divertono con i loro amici, che vivono i loro amori, ma che si allenano e sputano sangue sul parquet inseguendo un sogno, rispettando le regole, se stessi, i loro allenatori, imponendosi rinunce per il raggiungimento di un obiettivo comune.
Sono ragazzi che si sono messi in gioco, che non accettano la mediocrità, hanno deciso di accettare la sfida che il mondo gli ha messo davanti ed uniti come un vero gruppo, si sono assunti la responsabilità di crescere e di non rimandare quelle scelte che già oggi possono e sono in grado di prendere.
Ognuno di loro è importante nel progetto, a partire dal leader sino all’ultimo; quello che conta non è il minutaggio giocato, quello che conta è lavorare per farsi trovare pronti quando arriva il momento, anche fosse un solo minuto, anche fosse solo sostenere i compagni dalla panchina, nello sport come nella vita.
Questi ragazzi fanno del rispetto verso il prossimo la loro filosofia di vita e come tali meritano il mio massimo rispetto come quello dei loro allenatori, che con i loro insegnamenti li sostengono non solo sul campo ma anche nella vita.
Sono fortunato, perché una parte del cammino la stiamo facendo insieme, i risultati sportivi contano, certo, ma da un punto di vista umano questi ragazzi hanno già vinto.
Alla prossima!!
P.S.: sono i ragazzi dell’Under19 dell’Aurora Basket Jesi.