Management

I temi dell’autunno che verrà

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Il Ministro Poletti
Il Ministro Poletti

Rieccomi dietro la tastiera del pc o meglio dell’iPad seduto sul balcone di casa mia, intento a godermi gli scampoli finali di questa ultima domenica di agosto; da lunedì la stragrande maggioranza degli italiani sarà nuovamente al lavoro e qui sento già le prime vocine dire “si… beati quelli che ancora lo hanno il lavoro”, in effetti i temi occupazionali saranno uno dei temi, definiti caldi da quasi tutti i media, del prossimo autunno.

I TG si sono sprecati nell’elencarci i circa 150 tavoli aperti al Ministero per un numero veramente alto di posti di lavoro a rischio, anche diciamocelo, sono sempre gli stessi che si rimandano di mese in mese a causa del prolungarsi degli ammortizzatori sociali in attesa di una fantomatica ripresa.

La ripresa economica, altro grande tema di cui sentiamo parlare da mesi e con maggiore insistenza dall’avvento del Governo Renzi, ma che ad oggi non la si vede neanche a distanza, anzi sembra che l’intera Europa si sia arrestata visto e anche la grande Germania inizia a perdere colpi. Chissà che questa situazione non convinca anche la simpaticissima cancelliera tedesca a mollare l’osso ed a concedere politiche di minor rigore alle economie europee? Non sembra visto che Angela ha pensato di bacchettare Draghi per aver lasciato qualche spiraglio aperto per una politica maggiormente favorevole alla ripresa. La Germania, inconsapevolmente, si sta rendendo artefice di un nuovo olocausto, se continuano a fare i ferrei (e chi ha visto la NaziWeek in onda in questi giorni su History Channel sa bene di cosa parlo) saranno veramente in pochi a raccontarla.

In questo bailamme di estate “no logo” come il Corriere della Sera ha voluto nominarla vista la sua totale atipicità (nessun tormentone, nessun caso editoriale e decisamente bagnata), non poteva mancare la proposta per una ennesima riforma del mercato del lavoro. Mi viene da ridere solo all’idea e vi domando: come mai secondo voi parliamo sempre di riforme del mercato del lavoro? Sarà che forse con le precedenti annunciate come definitive, alla fine ci siamo ritrovati sempre con un pugno di mosche in mano? Sarà che forse dobbiamo prendere il coraggio a due mani e farne una vera e reale una volta per tutte?

Certo riformare il mercato del lavoro non sarà certo la soluzione di tutti i problemi, per iniziare ad indirizzarci verso la strada giusta di una ripresa dobbiamo proprio cambiare il nostro modo di pensare, il nostro modo di essere italiani, eliminare tutta quella zavorra antipatica tipica dell’italiano (furbetti del quartierino, pubblico diverso dal privato, la furbizia di trovare sempre il modo di aggirare le regole, ecc..) e tenere solo quello che di buono abbiamo e ci sono tante cose che ci distinguono in positivo (made in Italy, la genialità, la preparazione, l’elasticità mentale, lo spirito di adattamento, la voglia di fare, ecc.). Anche questa è una bella sfida…. anzi io credo che la vera sfida sia proprio questa, saremo capaci di coglierla? Oppure continueremo a piangerci addosso e non risolvere nulla? Renzi è avvisato.

Beh intanto bentrovati!!

Alla prossima!

Un nuovo futuro economico

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Un nuovo modello economico è possibile
Un nuovo modello economico è possibile

Negli ultimi giorni ho partecipato ad alcuni seminari come relatore, ecco perchè questo post arriva con un pò di ritardo dal precedente, seminari in cui si è discusso di positività, ottimismo ma anche di ripensare il futuro dell’Italia.

Interessanti le riflessioni che sono emerse da un confronto avuto con alcuni HR Manager umbri; risulta chiaro ed evidente che l’Italia deve rivedere la sua politica industriale, ad emergere da questo periodo post crisi c’è un mercato completamente diverso, sono perfettamente daccordo con il Presidente di Confindustria Ancona Claudio Schiavoni che all’evento dal titolo “Fiducia ed Ottimismo: i nuovi valori del bene comune” organizzato la scorsa settimana dalla Aurora Basket Jesi nell’ambito del progetto B4B (Basket for Business) ha testualmente detto: “la crisi è finita, quello che stiamo attraversando è un’altra cosa, è un mercato diverso da quello in cui eravamo abituati ad operare, dobbiamo adattarci a questo nuovo mercato che non può più essere quello di prima“.

Dobbiamo ripensare la nostra industria, rivedere le nostre priorità come sistema Paese; l’Italia ha un grande asset unico da valorizzare che nessuno può portarci via ed è la forza del suo brand, il cosiddetto MADE IN ITALY che tanto ha fatto ed ancora oggi fa nel campo della moda, dell’agroalimentare. Dobbiamo ripartire da li, dal lavorare tantissimo sul nostro brand principale capace di portare valore reale apprezzato e riconosciuto in tutto il mondo, dobbiamo rivedere il nostro modello produttivo da prodotto di massa a bassissimo valore aggiunto su cui, inutile illuderci, non siamo più competitivi ad un modello basato su prodotti tipicamente MADE IN ITALY di alta gamma che mettano in evidenza la nostra sapiente artiginalità e conoscenze tecnologiche, trasformarsi in quello che ho chiamato un modello basato sulla artigianalità-industriale.

Le istituzioni devo adoperarsi affinchè a livello europeo venga difesa e valorizzata la nostra tipicità, vanno aumentate le tutele e premiato il solo e vero made in Italy quello fatto interamente sul territorio nazionale; vanno riviste quindi anche le politiche di comunicazione verso il resto del mondo in un ottica di diffudione di una vera cultura della italianità. Paradossalmente stiamo perdendo la nostra tradizione, quello che veramente ci differenzia, facciamo sistema usciamo dalle parrocchie e dai campanilismi e pensiamo in termini di Paese, dobbiamo sviluppare la capacità di cooperare.

A proposito di cooperazione dobbiamo anche tornare a mettere al centro la persona, gli anni che hanno seguito il boom economico ci hanno portato sempre di più a spostare l’attenzione su una civiltà del consumatore, abbiamo perso di vista la persona. Sono sbalordito quando sento imprenditori, politici ed anche uno dei sindacalisti più radicali come Landini della FIOM dire che occorre anticipare il tfr in busta paga per rilanciare i consumi, una assurdità totale perchè in primis si va a depauperare un tesoretto che a fine carriera ognuno di noi può utilizzare ed investire come meglio crede e poi perchè torneremo a “drogare” il mercato con una immissine momentanea di liquidità che non risolverebbe alcunchè se non nel brevissimo periodo, proprio perchè va rivisto il sistema, non basta incitare i consumi occorre creare valore.

Dal creare valore, dal rimettere al centro la persona, dal coopeare e collaborare tutti concetti emersi negli incontri, si arriva facilmente al creare una nuova economia che va oltre il confine italiano ma che dovrebbe permeare l’intero pianeta, l’economia del bene comune. Mi sono imbattuto in questa teoria proprio durante uno di questi incontri, grazie ad un imprenditore che sta iniziando ad applicarla nella sua azienda con risultati sorprendenti. La teoria fa capo a Christian Felber scrittore e storico in ambito economico che ha recentemente scritto un libro dal titolo “L’economia del bene comune“, una teoria che ha alla base i valori fondamentali di fiducia, cooperazione, stima, democrazia e solidarietà; scopo della teoria è quello di promuovere una vita buona per tutti gli esseri viventi e per il pianeta, sorretta da un sistema economico orientato al bene comune; dignità umana, equità e solidarietà, sostenibilità ambientale, giustizia sociale sono questi gli elementi fondamentali che stanno alla base dell’idea.

Ho letto velocemente i punti principali della teoria, personalmente non sono daccordo su tutti vale però l’idea rivoluzionaria che porta in se, quella del cambiamento di paradigma che stimola le persone ad agire in cooperazione attraverso una valorizzazione reciproca.

E’ stata una settimana ricca quella trascorsa, che mi ha fatto prendere consapevolezza che persone stanno cambiando, c’è aria nuova, c’è voglia di fare, c’è voglia di ricostruire, diamoci da fare un nuovo inizio è possibile.

Alla prossima!!

 

Lo stato del Management in Italia oggi

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La locandina dell'incontro
La locandina dell’incontro

Venerdì scorso Manageritalia in collaborazione con l’Università Politecnica delle Marche ha organizzato in ISTAO (Istituto Adriano Olivetti) ad Ancona un incontro dal titolo “L’evoluzione del management delle imprese nelle Marche“; tra gli ospiti il Prof. Gianluca Gregori Preside della Facoltà di Economia che ha presentato la ricerca su come stanno reagendo le aziende marchigiane ai cambiamenti imposti dal mutato contesto economico e dal ricambio generazionale.

Sono emersi dati estremamente interessanti anche se, per chi come me opera nel mercato dell’outplacement e ricopre la carica di Vice Presidente di AIDP Marche (Associazione Italiana per la Direzione del Personale), non sono sembrati lontani da quello che è il mio pensiero; ciò che forse differisce dal mio punto di vista è l’interpretazione che è stata data a questi dati da parte di alcuni intervenuti alla tavola rotonda che ha seguito la presentazione del Prof. Gregori ed a cui hanno preso parte: il mio amico e Presidente di AIDP Marche nonchè Direttore Generale di ISTAO Dott. Giuliano Calza, il Dott. Mauro Carbonetti AD del Gruppo Gabrielli di Ascoli Piceno, il Prof. Sauro Longhi Rettore dell’Università Politecnica delle Marche, l’Assessore al Lavoro e Formazione della Regione Marche Marco Luchetti, il Dott. Massimiliano Polacco Direttore di Confcommercio Marche e il Dott. Antonio Votino di Manageritalia.

Non vi tedierò con i numeri, pur interessantissimi, della ricerca ne mi sogno di mettere in discussione le opinioni degli esponenti eminenti di cui sopra, voglio però cogliere l’occasione per dire la mia idea circa quello che sta accadendo nel mercato manageriale marchigiano e non solo, ritengo infatti che ciò che accade nelle Marche possa tranquillamente essere riportato a livello nazionale pur con le dovute correzioni del caso.

Circa un mese fa il Corriere della Sera pubblicava i dati di Federmanager riguardanti la perdita di posti di lavoro manageriali dal 2010 al 2013, emerge che sono passati da 1.680.000 del 2010 ai 769.000 del primo semestre del 2013; la ricerca del Prof. Gregori evidenziava oltre questo anche il fatto che diminuiscono il numero di dirigenti ed aumentano quello dei quadri.

Personalmente ritengo che in prima battuta sia necessario scindere tra PMI e multinazionali o grandi aziende, nel primo caso le cose sono estremamene chiare: questa diminuzione del numero dei manager non è dovuta al fatto che le imprese non ritengono più necessari esperienza e professionalità quanto al fatto che in questa situazione di crisi oggi le PMI non possono permettersi un manager a tempo pieno, le retribuzioni che giravano solo qualche anno fa oggi sono impossibili da sostenere per cui gli imprenditori si vedono costretti a tagliare i costi. L’unico modo che hanno le aziende di questa dimensione di usufruire di queste professionalità è solo attraverso temporary manager, contratti di collaborazione o consulenza (p.iva).

Discorso diverso per le multinazionali e per le grandi aziende dove comunque è in atto un discreto taglio di figure manageriali e non solo; per onestà intellettuale occorre dire che la situazione economica degli ultimi anni ha portato molti manager a sedersi sui propri scranni, dimenticando di aggiornare le proprie competenze, di implementare anche le conoscenze a livello tecnologico (non immaginate quanti siano i manager che oggi non sanno neanche inviare una mail), sono diventati senza neananche accorgersi, un fardello per l’azienda non più sostenibile in un momento di ristrettezze come quello attuale. Altre volte invece si assiste ad un indescriminato taglio di costi, ampiamente giustificabile per le PMI, un pochino meno spiegabile per le multinazionali; ottimi manager si trovano fuori dell’azienda sostituiti da giovani in erba che, seppur con una mentalità più fresca ed energie maggiori, non possono certo essere paragonati a chi si muove nel mercato da anni, senza contare che questi ragazzi si trovano privi di mentor.

In conclusione ribadisco che l’esperienza è ancora importante, l’esperienza e le competenze sono assolutamente necessarie alle aziende, occorre però che il manager si disposto a rimettersi in gioco: sul versante PMI proponendosi in modalità diverse alle imprese da quelle del lavoratore dipendente, nelle multinazionali pur essendo necessario un ricambio generazionale, non dimenticare che i giovani per crescere hanno bisogno di senior in grado di trasferirgli know how ed esperienza; organizzare dunque politiche di affiancamento junior/senior in una sorta di staffetta generazionale (mentorship).

Alla prossima!!

Risorse Umane… o Umane Risorse

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Risorse Umane...
Risorse Umane…

Torno dopo una assenza involontaria di una settimana causa della influenza, per parlare di Risorse Umane, termine che ormai ognuno di noi ha sentito più e più volte.

Si sono fatti film sul ruolo del responsabile delle risorse umane, scritti libri sia tecnici che romanzi, insomma è ormai impossibile non essere a conoscenza di questo termine; già… impossibile… ma quanti in realtà conoscono veramente il significato di queste due parole: risorse e umane?

Prendo testualmente dal vocabolario: risorsa – “Qualsiasi fonte o mezzo che valga a fornire aiuto, soccorso, appoggio, sostegno in situazioni di necessità.umano – “Dell’uomo, che è proprio degli uomini.“; risulta chiaro che se prendiamo alla lettera queste definizioni possiamo tranquillamente affermare che l’uomo è una risorsa come tante altre (economiche, energetiche, ecc..) all’interno del processo produttivo di un’azienda. Una visione un pò fredda e démodé tipica di un periodo in cui quando si alludeva alle risorse umane, si parlava sostanzialmente di gestione amministrativa delle stesse con un occhio rivolto più al lato contrattuale e di controllo.

Erano i tempi in cui si iniziava e si andava in pensione nella stessa azienda, tempi in cui l’importanza i dare il giusto peso alle persone in azienda, era tutto sommato di secondaria importanza, tanto al 90% non si sarebbero mai scollate dal loro posto di lavoro, semmai chi era demandato a gestire quel tipo di risorse umane era più attento alle relazioni industriali che non a tutti gli altri aspetti.

Erano i tempi in cui ci si rivolgeva ai lavoratori chiamandoli “maestranze“, “dipendenti“, termini estremamente passivi, che implicavano persone tanto più valide quanto maggiormente malleabili e atti a recepire i comandi che venivano impartiti dall’alto.

Oggi il contesto storico è notevolmente cambiato, concetti come flessibilità, lealtà, crescita, valori, meritocrazia, sono al centro della funzione risorse umane. Le aziende sono attente al valore insito nel personale, sono perfettamente consce che il successo di un’impresa passa necessariamente per il valore delle persone che la compongono; le aziende oggi sostengono fortemente i propri “collaboratori” (non più dipendenti o maestranze) ad essere assertivi, a manifestare il proprio potenziale, a tracciare percorsi di carriera coerenti con le capacità ed i sogni professionali dei singoli che le compongono.

Naturalmente questo cambiamento in atto fa si che anche la funzione risorse umane in azienda prenda una nuova connotazione, nessuno la chiama più solo “gestione risorse umane” dato che il termine gestione è relativo al presente, ovvero si gestisce ciò che si ha ora, praticamente tutte le aziende oggi hanno aggiunto al termine gestione anche sviluppo proprio perché in questo modo risulta chiaro e palese che oggi le persone in azienda non le si gestisce solamente ma le si supporta nella evoluzione del loro percorso di carriera, un concetto assolutamente dinamico.

O forse mi sbaglio … ???????????

Alla prossima!!

Post liberamente tratto dal libro “Psicologia delle risorse umane” edito da Raffaello Cortina Editore a cura di Argentero, Cortese e Piccardo

Followership, ovvero dove nasce la Leadership

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followership
I bravi follower? I leader di domani

In questi giorni di vacanze natalizie mi sto dedicando alla lettura del libro scritto da Dan Peterson e Dino Ruta dal titolo “Per me… numero 1” (edizioni Egea), un vero e proprio trattato sulla leadership che prende spunto dalla narrazione della vita di “Coach” Dan Peterson, sicuramente il più grande allenatore americano di basket in Italia.

Mi ha colpito in modo particolare quando Ruta, narrando uno dei primi periodi di vita lavorativa di Coach Peterson negli Stati Uniti, parla di “Followership“, un concetto che in realtà riporta all’omonimo libro di Barbara Kellerman professore in business administration all’università di Harvard.

Suona strano parlare di “follower” quando in realtà libri e corsi formativi ci bombardano con il concetto di “leader“, eppure leggendo il passaggio sono arrivato alla conclusione che per essere un buon leader occorre prima di tutto imparare ad essere un buon follower, ma cosa significa essere un follower?

Tutti noi abbiamo riportato o tuttora riportiamo ad un capo sia esso l’imprenditore, il direttore, il responsabile ecc.; la prima cosa da fare in questi casi è quella di riuscire ad entrare in sintonia con il nostro referente, ovvero sviluppare la capacità di ascolto, capire su cosa dobbiamo concentrarci e cosa invece va messo in secondo piano (definire le priorità), essere sempre disposti ad imparare da chiunque, essere in grado di poter esprimere la propria opinione anche quando essa differisce da quella del capo. Questo significa non essere degli “yes man” al contrario significa essere assertivi, dote non semplice da sviluppare e molto rischiosa da usare perchè un cattivo leader potrebbe non capire.

Vero comunque che come ci sono cattivi leader esistono altrettanto cattivi follower, in questo senso è emblematica la classificazione della Dott.ssa Kellerman che nel suo libro ha suddiviso quest’ultimi in: isolati ovvero coloro che accettano supinamente qualsiasi cosa senza il minimo coinvolgimento (ne troviamo diversi in azienda), spettatori quelli che vorrebbero ma non osano lasciando agli altri il compito di dire la loro (ne siamo pieni, i famosi quaquaraquà), partecipanti sono un valido supporto ma nulla più, attivisti coloro che come dice la parola sono sempre pronti ad essere di supporto al leader (attenzione qui si annidano gli yes man, inutili per definizione ma che tanto piacciono ai vari leader ed i paragnosti ovvero quelli che pensano di fare le scarpe al leader stesso) ed i combattenti, merce molto rara perchè sono attaccatissimi all’azienda che si spendono in prima persona con il rischio di essere incompresi e rimetterci se il leader non è capace; già… occorre essere dei bravi leader per essere in grado di valorizzare i follower meritevoli e non affossarli, in fondo il risultato del leader dipende molto anche dal tipo di follower che si ritrova.

In fondo non si è leader solo perchè siamo stati incaricati da qualcuno di esserlo, leader fa rima con autorevolezza non con autorità (concetto che ho espresso più volte), eppure sono ancora innumerevoli i leader che basano la loro gestione sul concetto di autorità e potere risultando ciechi al fatto che dietro di loro non c’è più nessuno e magari si lamentano del fatto che sono contornati di incompetenti, è necessario invece comprendere che un buon leader persuade le altre persone delle bontà delle sue idee in modo che questi ultimi siano disposti a dare il 101% anziché pretendere che lo facciano di default, ecco quindi perchè se si è stati dei buoni follower è molto probabile che saremo anche degli ottimi leader.

Alla prossima!!

PERCHE’ HR?

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Il logo di AIDP
Il logo di AIDP

Venerdì scorso come AIDP Marche (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) abbiamo organizzato un evento in collaborazione con la business school ISTAO (Istituto Adriano Olivetti) dal titolo “…Perchè HR?…” il nostro intento è stato quello di riflettere sul futuro delle Risorse Umane in azienda.

Ospiti del seminario sono stati il Dott. Emiliano Maria Cappuccitti HR Director di BIRRA PERONI, la Dott.ssa Stefania Monini HR Manager Corporate Functions di INDESIT e il Dott. Giuliano Calza nelle duplice veste di Presidente di AIDP Marche e di General Manager di ISTAO, mediati nei loro interventi dalla brillante giornalista del MONDO esperta in tematiche HR la Dott.ssa Gaia Fiertler.

Dal dibattito sono emersi spunti interessanti, su tutti il fatto che la figura dell’HR deve essere una figura che conosca l’aspetto a 360° non può e non deve essere solo un esperto di relazioni industriali; certamente il momento attuale vede per la maggior parte dei casi gli HR coinvolti in processi di riorganizzazione che, usando le parole di Cappuccitti, “tempo addietro si facevano in media una volta ogni due anni, oggi si fanno ogni sei mesi”, questo però non può e non deve diventare il pretesto per non fare anche sviluppo ed attuare politiche di valorizzazione delle risorse in azienda.

Su quest’ultimo versante la Dott.ssa Monini ci ha parlato delle politiche che INDESIT ha messo in pratica in questi mesi per valorizzare i propri collaboratori e per trattenere i talenti attraverso politiche di employer branding che hanno fatto emergere caratteristiche fondamentali per chi lavora in azienda: INnovative, INternational, INformal. Chi lavora in INdesit deve avere queste tre caratteristiche: essere innovativi nell’affrontare il lavoro, i processi e nello sviluppare nuove idee, avere un respiro internazionale, entrare in una multinazionale prevede gioco forza la possibilità di girare le varie sedi mondiali aumentando competenze e conoscenze sia tecniche che manageriali ma anche culturali attraverso il confronto con popoli diversi ed in ultimo essere anche informali ovvero a chiunque in Indesit è dato modo di confrontarsi anche con i più alti dirigenti aziendali, perchè da tutti possono arrivare idee e suggerimenti in grado di portare valore aggiunto.

Sul lato talenti e quindi sulla definizione di talento sia Cappuccitti che Calza hanno le idee molto chiare che personalmente mi sento di sottoscrivere appieno, secondo la mia opinione: il talento non esiste, ognuno di noi ha in se tutte le capacità per riuscire a fare qualsiasi cosa, occorre solo avere la giusta determinazione per raggiungere l’obiettivo. Cappuccitti traduce questo concetto con questa frase “talento per me è un concetto molto chiaro è colui che fa accadere le cose”, mentre Calza a stretto giro rilancia affermando che “non esiste il talento, tutti noi abbiamo le potenzialità dobbiamo solo lavorarci, impegnarci e dare il massimo”.

Incalzati dalle domande della Fiertler, tutti gli interlocutori concordano che oggi il ruolo dell’HR è quanto mai delicato, Cappuccitti ritiene che oltre alle conoscenze tecniche di cui parlavo sopra, chi si occupa di personale deve avere un equilibrio mentale perchè sei anche una sorta di confessore dei tuoi colleghi, allo stesso tempo possono capitare momenti in cui ti senti solo e sconfortato, specie quando sei chiamato a fare il lavoro sporco, che va comunque fatto in modo umano ed onesto, tenendo conto che davanti a noi abbiamo una persona in un momento particolarmente difficile della sua vita. Gli fa eco Calza che conferma che la categoria non sta sicuramente passando un bel momento, la reputazione sta scemando, quando invece il ruolo in azienda è fondamentale; dobbiamo tornare a difendere gli interessi delle persone, il cuore della nostra attività sta proprio nel mettere le persone al centro. Se una persona non performa il buon HR non deve licenziarla, deve solo trovargli il posto giusto per lui, il mestiere va fatto con passione.

Questo non significa essere buonisti, ci sono dei punti su cui non si transige e che vede i tre iterlocutori assolutamente concordi: chi si comporta in modo disonesto, chi ruba va cacciato dall’azienda immediatamente senza se e senza ma, proprio per questo motivo va posta massima attenzione al processo selettivo delle risorse, se scegliamo persone che non “fittano” con i valori aziendali saranno fonte sicura di problemi, per la risorsa stessa ma anche per noi come professionisti.

L’altro aspetto fondamentale di un buon HR è il fatto che deve avere sempre e comunque il polso della situazione, anche e specialmente nei momenti di apparente calma, sapere cosa “si muove” in azienda, respirare il “clima” è una caratteristica fondamentale, su questo la Monini è stata categorica “quando si sente dire da colleghi che una risorsa è uscita dall’azienda in maniera inaspettata è il primo sintomo che a sbagliare è stato proprio l’HR perchè non è riuscito a percepire il malessere della persona”.

In conclusione emerge da parte di tutti la grande soddisfazione per la scelta fatta di occuparsi di risorse umane, è un mestiere che ti può dare tanto anche perchè fatto essenzialmente di relazioni e cosa c’è di meglio se non conoscere e scoprire il prossimo?

Alla prossima!!

In Ferrari le Risorse Umane contano, parola di Montezemolo.

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Il sottoscritto ed il Presidente della Ferrari Montezemolo a Firenze
Il sottoscritto ed il Presidente della Ferrari Montezemolo a Firenze

Il 17 ed il 18 Maggio si è svolto nella meravigliosa cornice del Teatro della Pergola a Firenze, il 42° congresso nazionale di AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale); tra gli ospiti mi ha particolarmente colpito la testimonianza del Presidente della Ferrari Luca Cordero di Montezemolo e di Andrea Pontremoli CEO e General Manager di Dallara Automobili Spa.

Sarà che si i settori sono estremamente tecnologici, sarà che entrambi collaborano, sarà che entrambi vengono da un distretto industriale che solo un anno fa veniva duramente colpito dal terremoto ma cha ha avuto la prontezza di risollevarsi con le proprie forze, fatto sta che dopo mesi di piagnistei televisivi e di dibattiti insulsi, ho finalmente sentito parole serie e motivanti che lasciano poco spazio a diverse interpretazioni.

In particolare voglio porre l’accento sull’intervento di Montezemolo; il Presidente delle Ferrari ha invitato a non guardare alla globalizzazione come ad una minaccia ma ad una opportunità in particolare per l’Italia; nel mondo il made in Italy di qualità è apprezzato ed ambito come non mai, unitamente alla tecnologia, all’ingegno ed al design che hanno da sempre contraddistinto noi Italiani.

La critica è stata indirizzata verso chi, sino ad oggi, si è riempito la bocca con la parola crescita ma che nella pratica fa ben poco per perseguirla, facile ed immediata la connessione con il mondo politico. Al Governo ha indicato tre priorità: riforma elettorale, riduzione della spesa pubblica e conseguente riduzione della tassazione.

Sul lato Risorse Umane il Presidente della Ferrari ha rivelato come sia fondamentale il ruolo del Direttore del Personale e come tutte le aziende debbano averne uno, nessun imprenditore vince senza una squadra ed i referenti HR sono gli allenatori ed i formatori della squadra. Il lavoro inizia dalla selezione, bisogna avere la capacità di selezionare le persone in modo adeguato, portare in azienda persone che facciano la differenza, la specializzazione di chi assumiamo è fondamentale. La formazione è un’altro elemento fondamentale, deve essere “tailor made” sulle esigenze del singolo, senza dimenticarsi però che il percorso formativo andrà costruito tenendo conto anche delle esigenze delle aziende.

Guai a pensare di fare per tutta la vita lo stesso mestiere, è fondamentale la capacità di saper giocare in squadra, il “one man show” non funziona più. L’organizzazione in azienda è un miglioramento continuo è in continua evoluzione, non si esaurisce mai; a Maranello tutto il processo produttivo è interno, un vantaggio certo ma attenzione che non diventi uno svantaggio, chiudersi senza guardare fuori è un grosso errore, occorre aprire le finestre, lavorare con le università i centri di ricerca, conoscere sempre nuove persone.

Tra le competenze dei direttori HR, Montezemolo indica il coraggio di tirare la giacca a chi comanda, il saper tenere le proprie idee dunque, l’essere propositivi ed avere un contatto “bottom up”, il dialogo è fondamentale in azienda dal basso verso l’alto e viceversa. Occorre stabilire un percorso di carriera per le persone, per dare loro motivazione: un numero due che ha un numero uno bravo e giovane secondo voi farà sempre il numero due? Se non si innescano percorsi di carriera quella persona andrà persa perchè alla prima opportunità se ne andrà, verificare e dare sempre possibilità alternative. La motivazione dunque è un fattore importantissimo, uno scoglio dove spesso le aziende si incagliano; motivare i dipendenti anche attraverso i premi ed i riconoscimenti nel caso raggiungano i risultati previsti.

I responsabili delle risorse umane devono necessariamente avere la capacità di essere grandi innovatori nell’organizzazione, lo riportavo poche righe sopra, chi si ferma è perduto sono da evitare atteggiamenti vecchie vetusti occorre essere sempre nuovi; anche in questo aspetto mi trovo fermamente d’accordo con il Presidente Montezemolo, mi rendo conto che sono ancora troppe le aziende che adottano politiche ed organizzazione di vecchio stampo che in un momento come questo, a maggior ragione, devono essere innovate.

In ultimo il Presidente della Ferrari ha toccato anche l’aspetto più difficile dell’essere Direttore delle Risorse Umane, ovvero la riduzione del personale, aspetto doloroso e difficile ma che fa parte del mestiere. Anche quando si arriva a dover separare le strade tra azienda e collaboratore, occorre sempre vedere quale aiuto possiamo dare alle persone che escono non solo in termini economici ma anche come supporto alla ricollocazione, tenere contatti con il territorio, gestire questi momenti con umana profesionalità ma anche con determinazione.

Mi piace chiudere questo post con una frase che trovo meravigliosa di Montezemolo che ha detto “dietro prodotti eccezionali ci sono donne e uomini eccezionali”.

Alla prossima!!

L’importanza di chiamarsi… Responsabile Risorse Umane

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Prendo spunto dalla commedia teatrale di Oscar Wilde, trasformata poi in film da Oliver Parker (di cui vedete la locandina a lato), in cui si gioca sulla parola “Earnest” che in inglese significa “onesto” ma che si pronuncia allo stesso modo di “Ernest” (Ernesto).

Vero che nel tipico stile di Wilde, la commedia in realtà è una presa in giro dei costumi Vittoriani dell’epoca, credo però che se prendiamo il titolo così com’è possa essere parafrasato con il concetto di cui vi voglio parlare, ovvero l’importanza della funzione Risorse Umane in qualsiasi tipo di azienda.

Sia come operatore del mondo RU ma ancor di più come Vice Presidente di AIDP Marche (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) sono perfettamente conscio che sono molto poche le aziende italiane dotate di una funzione Risorse Umane che tratti a 360 gradi tutti gli aspetti di questo mondo meraviglioso; cosa questa ancor più vera se parliamo delle PMI.

Tralascio di parlare di multinazionali e di aziende grandi, nelle grandi mi permetto di inserire anche tutte quelle aziende che hanno dai 1000 dipendenti in su. Voglio invece puntare l’attenzione sulle PMI in senso stretto che come sappiamo costituiscono la stragrande maggioranza del tessuto imprenditoriale italiano. Oggi come ieri, in moltissime di queste aziende, la funzione al massimo esprime una o due persone incaricate per lo più della sola gestione amministrativa; spesso non ci sono neanche queste, visto che la gestione non è sicuramente strategica per l’impresa, tanto da essere data spesso in outsourcing.

Chi è allora che si occupa di Risorse Umane? Naturalmente l’imprenditore, che ha la pretesa di essere il primo ed unico fine conoscitore del mondo risorse umane (come del resto del commerciale, dell’amministrazione e via dicendo); è lui che si occupa di assunzioni (spesso suggerite da amici e parenti), è lui che si occupa di politiche retributive (andando spesso a simpatia), è lui che si occupa di formazione promuovendosi come vero ed unico formatore del suo personale, è lui che si occupa di relazioni sindacali nelle rare volte che incontra i sindacati e che spesso interpreta come veri e propri incontri di boxe.

Mi fermo qui perché chi lavora nelle PMI sa bene come funzionano le cose, ma la funzione RU è tutt’altro, al suo interno sono diversi i processi da seguire con le giuste competenze: pianificazione, reclutamento, selezione ed inserimento in azienda, formazione, valutazione del personale, politiche retributive e di carriera, relazioni sindacali, amministrazione e rapporti con il personale.

Oggi più di ieri le risorse umane hanno assunto un carattere fondamentale all’interno dell’organizzazione, l’evoluzione verso una sorta di RU 2.0 porta con se anche la necessità di un incremento delle competenze di chi ricopre questa funzione che non può più essere lasciata in un angolo o demandata al titolare.

Sviluppare sempre più professionalità in ambito HR è una delle strategie che le aziende italiane devo approntare per recuperare terreno; per troppo tempo ci siamo cullati sulle cosiddette “vacche grasse” che oggi sono diventate talmente magre da non potersi più permettere di rimanere inermi davanti alla crisi incalzante. Mi rendo conto altresì che per molte di queste aziende, dotarsi in pianta stabile di una figura professionale come quella di un Responsabile Risorse Umane con tutti i sacri crismi e competenze, può essere un investimento di difficile realizzazione, ci sono però numerosi professionisti nel mercato del lavoro (e mi riallaccio al mio precedente post Generazioni Contro) che possono essere ingaggiati come consulenti esterni a costi ridotti e ben determinati per l’azienda ma che portano un grande vantaggio competitivo in termini di esperienza e conoscenza.

In sintesi le aziende ed in particolare le PMI, devono capire che la crisi in atto ha creato profondi cambiamenti e nulla tornerà più come prima, prima si realizza questo, prima si reagisce e prima ci si rimette in pista. La funzione Risorse Umane è una di quelle funzioni a cui oggi non si può pensare di rinunciare, continuare a pensare che tutto quanto fatto sino ad oggi possa andare bene anche per domani è pura follia, rimanere inermi non farà che peggiorare e cose.

Alla prossima!

GENERAZIONI CONTRO

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In questi giorni sono stato sollecitato da diversi articoli apparsi su settimanali e quotidiani, inerenti i 50enni (Clooney ne è l’icona), articoli che si sono sommati ai fiumi di inchiostro versati per la disoccupazione giovanile, generazioni messe a confronto specialmente sul lato lavoro, in una sorta di contrapposizione inspiegabile.

In questo blog si parla di risorse umane e di tutto quanto gira attorno a questo meraviglioso mondo, per cui affronterò la diatriba da questo punto di vista con qualche flash su aspetti di natura psicologica.

Inutile dire che la categoria dei 50enni è tra le protagoniste di coloro che si avvalgono del servizio di outplacement quando sono in uscita da un’azienda; come mai? Nel periodo pre-crisi la motivazione era legata alla normale successione di professionalità in determinate posizioni (manageriali in particolare), in questo periodo di crisi invece le uscite sono legate sostanzialmente a motivi prettamente di natura economica, si tende ovvero a tagliare i costi privandosi di professionalità che vengono, erroneamente, definite obsolete e che occupano posizioni spesso di rendita a costi troppo elevati per le aziende, sostituendoli con figure più giovani a costi decisamente inferiori o non sostituendoli affatto ma ridistribuendo i carichi di lavoro tra chi rimane.

Torniamo all’inizio, si parla tanto di guerra tra padri e figli intesa come guerra tra generazioni per il posto di lavoro, tra privilegiati (i padri) e svantaggiati (i figli); personalmente credo che la domanda da farsi sia un’altra: la professionalità è ancora ricercata in azienda oppure no? La conoscenza o come viene definito in inglese il know-how è o no un fattore determinante per il successo di un’impresa?

Provo ad azzardare delle risposte che sono, chiaramente assolutamente personali; quanti tra voi avete provato a fare una ricerca di posizioni lavorative nei siti di web recruiting? Provate e scoprirete che per la stragrande maggioranza si tratta di stage, contratti a progetto, contratti di apprendistato ed al massimo tempo determinato, posti di lavoro dedicati chiaramente ai giovani, cosa che va in deciso contrasto con i dati allarmanti relativi alla disoccupazione giovanile (ma questo è un altro discorso), pochi i posti per chi possiede già delle professionalità consolidate.

La realtà è che la crisi ha cancellato buona parte del middle management, creando aziende piatte, piene di giovani neolaureati con una conseguente bassa professionalità, gestite direttamente dagli imprenditori o al massimo da uno o pochi dirigenti di esperienza che diventano l’unico faro per i giovani, a cui volgere lo sguardo per navigare nel mare del business moderno. Peccato che queste poche figure di esperienza rimaste in azienda non sono più in grado di programmare, di portare avanti progetti specifici perché vivono nella perenne emergenza, proprio perché tutti i giovani di belle speranze si rivolgono a loro per essere aiutati a gestire problematiche che chiaramente non sono in grado di gestire. Il risultato è che le imprese perdono terreno nel mercato globale, rimangono obsolete, non innovano, perdono il know-how il tutto in nome del presunto risparmio nel breve periodo.

Questa è la risposta che mi sento di dare, non è un caso che le nostre imprese arrancano e non trovano vie di uscita a una crisi che pur attanagliando il mondo intero, da noi sta facendo danni ben più grandi che altrove. Non voglio banalizzare affermando che questo sia il solo motivo, sappiamo bene che in Italia i problemi sono molti, sia dal lato legislativo che dal lato della tassazione del lavoro dipendente e molto altro, dico solo che questa scelta di eliminare il middle management è tutto fuorchè strategica per il futuro delle imprese. Rivalutiamo i 50enni e le loro conoscenze, sono un patrimonio per l’azienda Italia, lo dicono anche le ricerche effettuate dall’università di Haifa in Israele e pubblicate qualche settimana fa su Panorama, fatta tra manager dell’High Tech, industria ed infrastrutture, emerge infatti che i manager tra i 50 ed i 59 anni sono tra i più attivi con un picco di prestazioni a quota 57. Ricerca questa che fa il pari con un articolo di mercoledì scorso apparso sul Corriere della Sera in cui una associazione inglese di nome “Love to learn” ha promosso un sondaggio tra 1000 uomini e donne 50 enni facendo emergere che oggi la mezza età si raggiunge a 55 anni contrariamente ai dati ottenuti in una precedente rilevazione in cui il confine era stato posto a soli 36 anni.

Questo traslare in avanti delle nostre vite è testimoniato nuovamente da Panorama con un articolo di qualche settimana prima in cui, il neuro scienziato Jay Giedd del National Institute of Mental Health americano, afferma che il cervello dell’uomo tende a raggiungere la piena maturazione solo ai 30 anni a causa dello sviluppo ultimo della corteccia prefrontale che è responsabile della pianificazione, delle priorità e del controllo degli impulsi.

Fortunatamente molte aziende si stanno ricredendo, le multinazionali a dire il vero sono sempre rimaste strutturate, ma le PMI sono state tra le prime a “tagliare” l’esperienza credendola un costo anziché una risorsa, tornare a scoprire il prezioso supporto di un 50enne di esperienza può essere una valido supporto per il piccolo e medio imprenditore per rilanciare la propria azienda e tornare a primeggiare nel business.

Alla prossima!

RICAMBIO GENERAZIONALE: opportunità o minaccia?

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Avevo anticipato che sarei tornato sull’argomento dell’avvicendamento generazionale in azienda ebbene eccomi qui. Qualcuno potrebbe obiettare affermando “ma cosa c’entra con le Risorse Umane?” Crescere i propri figli e prepararli al passaggio di consegna in azienda non è forse esso stesso esempio di gestione delle persone? Persone a cui si tiene particolarmente: la propria figlia o il proprio figlio.

Il passaggio di mano in azienda è, oggi ancor più di ieri, un passaggio cruciale, che può decretare la crescita ed il successo o il naufragio di un impresa; un argomento di cui si parla continuamente: nei media, nei libri, si organizzano convegni e corsi in materia, ma che difficilmente mostra esempi virtuosi, tanto che spesso si suole dire che “la prima generazione crea, la seconda consolida, la terza distrugge”.

La mia esperienza mi porta a dire che troppo spesso già la seconda generazione distrugge tutto quanto di buono è stato costruito dalla prima, ma perché avviene questo?

Spesso la colpa, inconsapevole, è proprio dei padri, memori delle difficoltà affrontate e spesso delle privazioni avute per realizzare il sogno, vogliono evitare a tutti i costi che le medesime privazioni siano patite dai figli, il risultato? Figli che crescono viziati, con tutto a disposizione, dove il top diventa abitudine e routine ed il significato della parola sacrificio è raramente conosciuto. Il secondo errore è una conseguenza del primo, ovvero quando arriva il momento di far entrare i figli in azienda, anziché farli partire da posizioni inferiori che gli consentirebbero di farsi le ossa ed accumulare esperienza, vengono immediatamente inseriti in posizioni dirigenziali pur non avendo minimamente le competenze per ricoprire tali ruoli e se commettono errori vengono messi al pubblico ludibrio dal genitore, delegittimandoli davanti a tutti i dipendenti; ne consegue la totale perdita di credibilità nei confronti dei dipendenti stessi.

Leggerezze che purtroppo, inconsapevolmente, portano alla distruzione di quanto creato, proprio da parte di coloro che hanno costruito con il loro genio l’impresa.

Spesso è vero anche il contrario, figli capaci e con brillanti idee innovative, relegati al vecchio che passa, dai padri che non vogliono sentirne di mollare lo scettro.

Non è facile trovare soluzioni, non è un caso infatti che in Europa due aziende su tre chiudono nei 5 anni successivi al passaggio generazionale e solo una impresa su tre arriva alla terza generazione, con il risultato che milioni di posti di lavoro vengono letteralmente gettati alle ortiche. Per invertire la tendenza occorre che l’imprenditore, se non riesce a farlo da solo, guardi oltre lasciandosi aiutare da chi, esternamente, è in grado di vedere le cose come stanno realmente.

Un team di consulenti che sappiano agire ognuno nel proprio settore (finanza, commerciale, risorse umane, ecc.), ad esempio fare del coaching sui figli e sul genitore è una attività che può sicuramente aiutare a superare blocchi e trovare soluzioni a problematiche che possono sembrare insormontabili.

Quale quindi la risposta alla domanda iniziale? Personalmente ritengo il passaggio generazionale una grandissima opportunità non solo di mantenimento ma di crescita vera e propria dell’azienda davanti alle nuove sfide, a patto che si seguano i giusti passaggi e che, nel caso non si riesca, ci sia la maturità di scegliere di avvalersi di professionisti in grado di evitare l’ecatombe.

Alla prossima!!