Mese: agosto 2012

STRESSATO SUL LAVORO? CHI NON LO E’?

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Come preventivato nel mio ultimo post, eccomi nuovamente a voi dopo la pausa estiva che mi auguro sia stata serena e piacevole per ognuno di voi.

Quando si parla di rientro, dopo un periodo feriale lungo come quello agostano, iniziano sui giornali a materializzarsi articoli su articoli in merito al possibile stress da rientro, a come in pochi giorni si perdano i benefeci di due o tre settimane di pausa, la tv inizia a propinarci spot che richiamano alle vacanze andate, con persone inebetite sedute sulla scrivania del lavoro a rimuginare sulla crociera appena finita, insomma sembra che il rientro stressante al lavoro sia diventato uno stereotipo.

Vale la pena di mettere alcuni puntini sulle i e di capire cosa sia realmente stressante e perché; in primis occorre dire che nella situazione economica odierna probabilmente c’è un livello maggiore di stress tra chi il lavoro non lo ha, piuttosto di chi ancora ha il privilegio (siamo arrivati a questo punto purtroppo) di averlo. Lo dico a ragion veduta visto che sia come consulente di outplacement che come coach sono costantemente a contatto con persone che vivono sulla propria pelle la perdita del posto di lavoro.

Il secondo aspetto che di cui volevo parlare è appunto il famoso D.Legs. 81/08 ovvero la normativa riguardante lo stress da lavoro correlato, entrata in vigore a Gennaio 2011 in attuazione delle norme europee in materia. Attraverso questa normativa il datore di lavoro ha l’obbligo di rilevare il livello di stress lavorativo presente nella sua organizzazione; in caso di mancata osservanza della normativa il datore di lavoro è perseguibile penalmente.

Ricordo che con AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) negli ultimi mesi del 2010 organizzammo degli incontri proprio per evidenziare l’importanza di rilevare il livello di stress nelle aziende in attuazione della normativa; a distanza di quasi due anni non mi sembra di aver letto nulla di che in termini di risultati ottenuti, almeno dopo il primo anno di rilevazione, al contrario, un recente articolo apparso su Panorama ha messo in evidenza l’esatto contrario, parrebbe infatti che il livello di stress sul lavoro nelle aziende italiane sia praticamente nullo, come mai?

Ho provato a fare una ricerca sul web ed a parte qualche articolo qua e la di risultati ufficiali se ne vedono ben pochi, la cosa che lascia perplessi è che l’INAIL ha prodotto un manuale scaricabile gratuitamente (http://www.inail.it/repository/ContentManagement/node/N1926320722/StressLavoroCorrelato.pdf)  in cui viene descritto per filo e per segno come attuare una politica di rilevazione del livello di stress in azienda, di fatto banalizzando l’intera normativa, inutile quindi applicare sanzioni pesantissime (penali ricordo, unici in Europa) quando è possibile “mettersi in regola” attraverso pochi banali passi. Siamo forse riusciti per l’ennesima volta a fare la legge ed a trovare simultaneamente l’inganno per aggirarla? A voi l’ardua sentenza.

Voglio però chiudere il post con una provocazione: secondo voi è più stressato un lavoratore innamorato del suo lavoro oppure uno che vede nel suo posto di lavoro solo una fonte di sostentamento e che trova solo nella vita fuori dall’azienda le sue soddisfazioni?

Io credo che non esista lavoro che non produca anche un seppur minimo livello di stress (ci tornerò la prossima settimana con un post) e che si è maggiormente stressati se il lavoro che facciamo ci piace, proprio perché ci teniamo e vogliamo che tutto sia fatto al meglio tendiamo ad impegnarci al massimo, a dedicare tempo extra, anche ad arrabbiarci se le cose non filano nel verso che vogliamo, rimaniamo delusi se dopo tanto impegno il capo non ci premia con un riconoscimento economico ma soprattutto psicologico (a volte non arriva neanche la pacca sulla spalla che è più salutare ed incentivante di tante altre cose), se non c’è chiarezza sul nostro ruolo, se le prospettive di crescita rimangono disattese, se non ci viene concessa una formazione che ci professionalizzi ancor di più.

Chi, al contrario, entra in azienda per fare lo stretto indispensabile, non si assume alcuna responsabilità che non sia strettamente riconducibile al ruolo coperto, chi aspetta solo che le ore passino svolgendo tranquillamente i suoi compiti per poi uscire e realizzarsi fuori dal lavoro sicuramente non ha aspettative alte, vive con la massima calma il suo ruolo in azienda, diciamo anche che non ha bisogno di alcun segno da parte del proprio capo e men che meno è interessato a momenti formativi extra che vivrebbe, quelli si, con fastidio e stress.

Di conseguenza ritengo che sia molto importante applicare i dettami del D.Lgs. 81/08 e che la politica da mettere in campo per ovviare a questa problematica, sia quella della valorizzazione delle risorse umane della propria azienda, proprio come scriveva Silvia Cingolani qualche settimana fa su questo blog.

Alla prossima!

RIFORMA DEL LAVORO: FOCUS SULLA CONCILIAZIONE PREVENTIVA

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L’argomento riforma del lavoro è un tema  complesso, in continuo divenire a causa degli “aggiustamenti” spesso e volentieri più che necessari, che il legislatore sta apportando strada facendo. Negli ultimi periodi ho partecipato ed in un caso anche organizzato, eventi in cui eminenti giuslavoristi hanno illuminato i presenti sui meandri giuridici della riforma, sono rimasto abbastanza basito dal fatto che spesso e volentieri gli stessi hanno visioni ed interpretazioni completamente diverse gli uni dagli altri, segno che la legge, se non è scritta bene, lascia ampi margini di discrezionalità a seconda di chi deve interpretarla, un rischio a mio parere eccessivo per chi invece si trova a dover prendere decisioni dalla cui scelta può dipendere una interpretazione rispetto ad un’altra.

Parlando di riforma del lavoro, sono le imprese ed in particolare i direttori del personale, a dover prendere decisioni sulla base di una legislazione che lascia, ad oggi appunto, ampi margini interpretativi; con il rischio che le stesse possano ritorcersi contro chi le ha prese.

In questo post voglio fare un focus sulla conciliazione preventiva obbligatoria nel caso di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo in aziende con un numero di dipendenti maggiori a 15. Come certamente saprete in questo caso il datore di lavoro deve anticipare il licenziamento inviando una comunicazione alla DTL (Direzione Territoriale del Lavoro) dove ha sede l’unità produttiva, inviandola per conoscenza anche al lavoratore, in cui comunica l’intenzione di procedere al licenziamento, ne indica le motivazioni ed illustra le misure di ricollocazione messe in atto in favore del dipendente oggetto di licenziamento.

La DTL entro 7 giorni convoca le parti (azienda e lavoratore) per dare luogo al tentativo di conciliazione, l’incontro avviene dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione. Una prima cosa a cui porre attenzione è che la comunicazione di convocazione è valida solo se viene recapitata al domicilio del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o ad altro domicilio formalmente indicato dal lavoratore al datore di lavoro o se consegnato brevi manu con il lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta. Le parti possono essere assistite se lo desiderano, dalle rispettive associazioni sindacali, o avvocati o consulente del lavoro. In questo caso molti si domandano se sia possibile che in sede di conciliazione, siano presenti, come avviene spesso oggi in sede di conciliazione, solo i rappresentanti delle parti che operino per nome e conto delle parti, da quello che si evince dalla norma mi sembra proprio di no, anzi emerge chiaramente la necessità che siano le parti primariamente a gestire la conciliazione.

Nell’incontro alla DTL per prima cosa occorre esaminare eventuali forme alternative al licenziamento (ricollocazione interna se possibile) in caso negativo si procede ad un tentativo di conciliazione, la procedura dura al massimo 20 giorni dalla data di invio della convocazione a meno che le parti, di comune accordo, non intendano chiedere una proroga per poter arrivare ad un accordo. Nel caso in cui il lavoratore avesse un legittimo impedimento, la procedura può essere sospesa per un massimo di 15 giorni.

Se la mediazione fallisce il datore di lavoro può comunicare comunque il licenziamento al lavoratore che ricorrerà in giudizio per riuscire ad ottenere l’eventuale annullamento e l’indennità risarcitoria, il licenziamento ha effetto dalla data di avvio della procedura stessa, quindi l’eventuale periodo di tempo lavorato sino al momento della chiusura della procedura conta come preavviso lavorato.

Nel caso in cui la mediazione riesca con la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il lavoratore avrà diritto ad accedere all’ASPI e prevedere l’attivazione di un programma di outplacement che gli consenta di essere accompagnato nella ricerca di una nuova collocazione professionale.

Nel caso si ricorra in giudizio, il comportamento tenuto dalle parte in sede di conciliazione sarà valutato dal giudice ai fini della determinazione del risarcimento economico spettante al lavoratore e per la quantificazione delle spese legali.

Questo il processo nel suo complesso, aggiungo delle annotazioni personali:

1)      risulta evidente che oggi questo procedimento è di fondamentale importanza nella gestione di gran parte dei licenziamenti, con questa procedura il legislatore lancia chiaramente il messaggio di cercare di chiudere le controversie a questo livello. Lo si evince anche dal fatto che oggi sappiamo che, nel caso si ricorra in giudizio, per quanto duri il procedimento, alla fine si arriverà ad un risarcimento per il lavoratore che oscillerà tra le 12 e le 24 mensilità al massimo (sempre nel caso esca vincitore dalla disputa) a meno che non ci sia manifesta insussistenza del licenziamento, in quel caso il lavoratore dovrà essere reintegrato.

2)      Se prima molte di queste situazioni venivano risolte attraverso un accordo nelle “quattro pareti” dell’azienda tra lavoratore e datore di lavoro, oggi è ragionevolmente presumibile che tutti i lavoratori chiederanno la conciliazione, fosse anche solo per la possibilità, in caso di accordo, di percepire l’ASPI; cosa che non potrà accadere nel caso di un procedimento gestito “in casa” e che si concluda con le dimissioni volontarie a fronte di un accordo sul pacchetto di uscita tra lavoratore ed azienda. Ulteriore nota negativa a questa seconda ipotesi è il fatto che con la nuova normativa ogni dimissione volontaria va comunque validata attraverso un procedimento abbastanza farraginoso.

3)      Fondamentale, perché riportato dallo stesso legislatore, il fatto di prevedere in fase di procedimento conciliativo da parte dell’azienda la possibilità di offrire al lavoratore oggetto di licenziamento, un programma di outplacement che consenta al lavoratore di accelerare i tempi di ricollocamento; una politica attiva del lavoro fino ad oggi trascurata dai più.

4)      L’importanza di tenere da parte dell’azienda e del lavoratore, un comportamento in fase di conciliazione il più possibile, mi scuso per il gioco di parole, conciliante, comportamento che diventerà oggetto di valutazione da parte del giudice nel caso si ricorra in giudizio. Importante quindi che il lavoratore valuti bene e con attenzione le proposte che il datore di lavoro metterà sul piatto, a costo di vedersi eventualmente riconoscere una indennità inferiore; lo stesso dicasi per l’azienda, ovvero l’importanza che la stessa faccia proposte conciliative che tengano in debito conto il disagio del lavoratore, quindi un pacchetto che preveda una congrua buona uscita economica ed inevitabilmente anche l’outplacement pena, in caso di giudizio, del pagamento della più alta indennità economica.

5)      Riprendendo quanto scritto al punto, è chiaro che la maggior parte delle procedure di licenziamento si concluderanno a questo livello se ci sarà buonsenso da parte di entrambi gli attori: andare in giudizio non conviene a nessuno, men che meno al lavoratore che se fino a ieri poteva ambire a risarcimenti faraonici e magari anche al reintegro a cui inevitabilmente veniva preferita l’indennità di ulteriori 15 mensilità oggi al massimo può ambire a 24 mensilità, trovarsi senza lavoro e senza possibilità di usufruire di un programma di ricollocamento sempre più fondamentale in un momento economico come questo.

Con questo post come già anticipato, RU e dintorni va in ferie (meritatamente aggiungo), vi do appuntamento all’ultima settimana di Agosto quando riprenderò le pubblicazioni, nel frattempo la mail è sempre attiva, l’iPad e l’iPhone sono sempre con me, quindi se avete domande o curiosità scrivete pure sarò lieto di rispondervi.

Alla prossima e BUONE VACANZE!!!