Mese: novembre 2013

Vocabolario delle risorse umane: MERITOCRAZIA

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Meritocrazia... mah?
Meritocrazia… mah?

Non pensavo di tornare ad affrontare, subito dopo aver parlato di “talento”, di un’altra parola stra-abusata nel lessico relativo alle risorse umane e non solo: MERITOCRAZIA. Poi però accadono delle cose ed inevitabilmente non puoi esimerti dal dire la tua (in questo caso la mia) su questo termine così tanto sbandierato quanto poco realmente utilizzato nel nostro bene amato Paese.

Sapete ormai, come a me piaccia andare a leggere come il vocabolario definisca i termini di cui parlo, anche questa volta non sono da meno ecco quindi come il vocabolario Treccani definisce il termine meritorcrazia:

MERITOCRAZIA: s. f. [dall’ingl. meritocracy, comp. del lat. meritum «merito» e -cracy «-crazia»]. – Concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, e spec. le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, oltreché di impegnarsi nello studio e nel lavoro; il termine, coniato negli Stati Uniti, è stato introdotto in Italia negli anni Settanta con riferimento a sistemi di valutazione scolastica basati sul merito (ma ritenuti tali da discriminare chi non provenga da un ambiente familiare adeguato) e alla tendenza a premiare, nel mondo del lavoro, chi si distingua per impegno e capacità nei confronti di altri, ai quali sarebbe negato in qualche modo il diritto al lavoro e a un reddito dignitoso. Altri hanno invece usato il termine con connotazione positiva, intendendo la concezione meritocratica come una valida alternativa sia alle possibili degenerazioni dell’egualitarismo sia alla diffusione di sistemi clientelari nell’assegnazione dei posti di responsabilità.

Che bello il vocabolario!! Purtroppo scarsamente utilizzato non solo nella vita di tutti i giorni, ma anche e soprattutto in quei contesti dove invece dovrebbe essere alla base dell’insegnamento ovvero il sistema scolastico. Eh si, il sistema scolastico perchè guarda caso, proprio qui si manifesta la prima stortura nell’uso del termine, un esempio? Pronti!! Accade che mio figlio (1 media) torni a casa da scuola ed intavoli questo discorso:

Figlio: “Papà mi spieghi una cosa?”
Io: “Certo dimmi pure se posso”
F : “Lo sai che oggi la prof ha interrogato e su quattro compagni che ha chiamato: uno è andato bene, uno così così, mentre altri due sono andati male”
Io : “Succede figlio mio specie se non studi, immagino che sei rimasto male per i compagni che non sapevano la lezione, ecco perchè papà e mamma ti dicono sempre di studiare, perchè lo studio serve…… omiss” (evito il pistolotto)
F : “No no papà non sono rimasto male per quello, se non studi è normale che accada questo”
Io : “E allora per cosa?”
F : “Ecco volevo chiederti è normale che ad uno dei due che è andato male e che si è messo a piangere la prof abbia detto: vabbè dai non ti metto il voto e ti rifaccio l’interrogazione la prossima volta?”
Io: “Beh… in realtà no però sai forse la prof ha voluto essere comprensiva verso il compagno di classe”
F: “Si ma è la quarta volta che succede sempre con lui e poi mi spieghi perchè all’altro non ha detto la stessa cosa?”
Io: “…………….”

Ecco poche parole che ci fanno capire come il concetto di meritocrazia e, aggiungo, di giustizia in questo Paese si sia perso (se mai lo abbiamo avuto) sin dai primi gradini educativi, facile capire come, con il crescere, questo concetto così semplice in realtà sia completamente dimenticato.

Eppure le cronache ci innondano di meritocrazia, aziende che basano le loro employer branding sulla meritocrazia, ma poi a far carriera sono sempre i soliti noti, politici che si riempono la bocca con il merito, salvo poi trovarci nella realtà in ben altre condizioni.

Venerdì scorso sono stato al forum dei Giovani Imprenditori di Confindustria dell’Interregionale centro che raccoglie Marche, Umbria e Lazio, ci sono stati ospiti illustri tra cui Marina Salamon; Pupi Avati, il Prof. Zamagni ecc. credo che da queste persone occorra ripartire, da persone positive anche in un momento negativo come quello attuale, che hanno guadagnato la stima e l’ammirazione dell’Italia e di Paesi esteri, che hanno con la fatica e l’impegno “meritato” il posto che oggi occupano nella società.

Facile quindi agganciarmi ad un’altro concetto che da mesi propongo su queste pagine, CAMBIAMENTO, è arrivata l’ora, non è più prorogabile occorre CAMBIARE, nulla è e sarà più come prima: modificare la nostra visione, stabilire nuovi obiettivi, ritrovare l’etica del fare in qualsiasi campo esso sia in una società finalmente effettivamente meritocratica, perchè come dice ZamagniFelice per il crollo se la ricostruzione renderà più bello l’edificio“.

Alla prossima!!

Il falso mito dei talenti

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La parabola dei talenti
La parabola dei talenti

Talento, parolona di cui oggi sono pieni testi, articoli di giornale, senza contare che nel linguaggio aziendale il talento è costantemente sotto i riflettori, non sono poche le aziende che si sbizzarriscono nel creare politiche per attirare e trattenere i talenti. Bene peccato che in realtà il talento non esiste!!!

Sono forse esagerato? Nelle righe che seguono cercherò di dimostarvelo. Partiamo dall’etimologia della parola: talento deriva dal greco talanton che altro non era che il piatto della bilancia, cosa lo ha erroneamente portato all’attuale significato di “predisposizione, capacità e doti intellettuali rilevanti in quanto naturali ed intese a particolari attività” come recita l’enciclopedia Treccani? Sicuramente una errata interpretazione della parabola riportata dal Vangelo di Matteo chiamata per l’appunto parabola dei talenti.

Per chi non la conoscesse ancora, la parabola recita testualmente: “Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. Venuto, infine, colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglieteli dunque il talento, e datelo a chi ha dieci talenti. Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre: là sarà pianto e stridore di denti.”

Una parabola che se letta e non correttamente interpretata può suonare come uno stridore rispetto alla parola di Cristo, a parte che non è questo il lugo per una disquisizione religiosa, quello che mi preme invece sottolineare è che il messaggio comune che esce da queste righe è sostanzialmente che “chi ha delle possibilità innate deve farle fruttare” da qui la trasformazione di talento da piatto della bilancia a persona con doti innate.

Qui sta l’errore, in realtà se andiamo a dare una lettura più approfondita della stessa capiremo che il messaggio che vuole passare è che ognuno di noi è dotato di tutte le potenzialità necessarie per riuscire in ciò che crede, l’importante è dare tutto se stessi, sopportando anche forti sacrifici.

Talento quindi non esiste così come lo concepiamo, esiste l’impegno a conseguire gli obiettivi che ci siamo prefissati, ovvero a mantenere sempre alta la motivazione individuale, come? Ritorno al concetto espresso un paio di post fa ovvero sviluppando al massimo la resilienza che si compone di un elevato senso di autoefficacia e di ottime capacità volizionali che ci sostengono e consentono di supere gli ostacoli che inevitabilmente si pareranno davanti nel cammino verso la nostra piena realizzazione.

Alla prossima!!

PERCHE’ HR?

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Il logo di AIDP
Il logo di AIDP

Venerdì scorso come AIDP Marche (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) abbiamo organizzato un evento in collaborazione con la business school ISTAO (Istituto Adriano Olivetti) dal titolo “…Perchè HR?…” il nostro intento è stato quello di riflettere sul futuro delle Risorse Umane in azienda.

Ospiti del seminario sono stati il Dott. Emiliano Maria Cappuccitti HR Director di BIRRA PERONI, la Dott.ssa Stefania Monini HR Manager Corporate Functions di INDESIT e il Dott. Giuliano Calza nelle duplice veste di Presidente di AIDP Marche e di General Manager di ISTAO, mediati nei loro interventi dalla brillante giornalista del MONDO esperta in tematiche HR la Dott.ssa Gaia Fiertler.

Dal dibattito sono emersi spunti interessanti, su tutti il fatto che la figura dell’HR deve essere una figura che conosca l’aspetto a 360° non può e non deve essere solo un esperto di relazioni industriali; certamente il momento attuale vede per la maggior parte dei casi gli HR coinvolti in processi di riorganizzazione che, usando le parole di Cappuccitti, “tempo addietro si facevano in media una volta ogni due anni, oggi si fanno ogni sei mesi”, questo però non può e non deve diventare il pretesto per non fare anche sviluppo ed attuare politiche di valorizzazione delle risorse in azienda.

Su quest’ultimo versante la Dott.ssa Monini ci ha parlato delle politiche che INDESIT ha messo in pratica in questi mesi per valorizzare i propri collaboratori e per trattenere i talenti attraverso politiche di employer branding che hanno fatto emergere caratteristiche fondamentali per chi lavora in azienda: INnovative, INternational, INformal. Chi lavora in INdesit deve avere queste tre caratteristiche: essere innovativi nell’affrontare il lavoro, i processi e nello sviluppare nuove idee, avere un respiro internazionale, entrare in una multinazionale prevede gioco forza la possibilità di girare le varie sedi mondiali aumentando competenze e conoscenze sia tecniche che manageriali ma anche culturali attraverso il confronto con popoli diversi ed in ultimo essere anche informali ovvero a chiunque in Indesit è dato modo di confrontarsi anche con i più alti dirigenti aziendali, perchè da tutti possono arrivare idee e suggerimenti in grado di portare valore aggiunto.

Sul lato talenti e quindi sulla definizione di talento sia Cappuccitti che Calza hanno le idee molto chiare che personalmente mi sento di sottoscrivere appieno, secondo la mia opinione: il talento non esiste, ognuno di noi ha in se tutte le capacità per riuscire a fare qualsiasi cosa, occorre solo avere la giusta determinazione per raggiungere l’obiettivo. Cappuccitti traduce questo concetto con questa frase “talento per me è un concetto molto chiaro è colui che fa accadere le cose”, mentre Calza a stretto giro rilancia affermando che “non esiste il talento, tutti noi abbiamo le potenzialità dobbiamo solo lavorarci, impegnarci e dare il massimo”.

Incalzati dalle domande della Fiertler, tutti gli interlocutori concordano che oggi il ruolo dell’HR è quanto mai delicato, Cappuccitti ritiene che oltre alle conoscenze tecniche di cui parlavo sopra, chi si occupa di personale deve avere un equilibrio mentale perchè sei anche una sorta di confessore dei tuoi colleghi, allo stesso tempo possono capitare momenti in cui ti senti solo e sconfortato, specie quando sei chiamato a fare il lavoro sporco, che va comunque fatto in modo umano ed onesto, tenendo conto che davanti a noi abbiamo una persona in un momento particolarmente difficile della sua vita. Gli fa eco Calza che conferma che la categoria non sta sicuramente passando un bel momento, la reputazione sta scemando, quando invece il ruolo in azienda è fondamentale; dobbiamo tornare a difendere gli interessi delle persone, il cuore della nostra attività sta proprio nel mettere le persone al centro. Se una persona non performa il buon HR non deve licenziarla, deve solo trovargli il posto giusto per lui, il mestiere va fatto con passione.

Questo non significa essere buonisti, ci sono dei punti su cui non si transige e che vede i tre iterlocutori assolutamente concordi: chi si comporta in modo disonesto, chi ruba va cacciato dall’azienda immediatamente senza se e senza ma, proprio per questo motivo va posta massima attenzione al processo selettivo delle risorse, se scegliamo persone che non “fittano” con i valori aziendali saranno fonte sicura di problemi, per la risorsa stessa ma anche per noi come professionisti.

L’altro aspetto fondamentale di un buon HR è il fatto che deve avere sempre e comunque il polso della situazione, anche e specialmente nei momenti di apparente calma, sapere cosa “si muove” in azienda, respirare il “clima” è una caratteristica fondamentale, su questo la Monini è stata categorica “quando si sente dire da colleghi che una risorsa è uscita dall’azienda in maniera inaspettata è il primo sintomo che a sbagliare è stato proprio l’HR perchè non è riuscito a percepire il malessere della persona”.

In conclusione emerge da parte di tutti la grande soddisfazione per la scelta fatta di occuparsi di risorse umane, è un mestiere che ti può dare tanto anche perchè fatto essenzialmente di relazioni e cosa c’è di meglio se non conoscere e scoprire il prossimo?

Alla prossima!!

Sviluppare la RESILIENZA

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Sviluppare la Resilienza
Sviluppare la Resilienza

Oggi voglio toccare il concetto di resilienza; un termine che ha molteplici significati: in ingegneria rappresenta la capacità di un materiale di resistere agli urti, in informatica indica la capacità di un sistema di adattarsi alle condizioni d’uso, in ambito personale indica la capacità di mantenere viva la propria automotivazione.

Mi riallaccio quindi al mio post in cui parlavo di motivazione, oggi questo concetto è oltremodo importante alla luce di una crisi economica che sembra infinita e a tutte le difficoltà connesse sia in ambito lavorativo che personale.

In questo stato di cose, diventa fondamentale sviluppare il più possibile la nostra resilienza, ma come possiamo farlo? Per prima cosa va detto che per mantenere alta la propria automotivazione occorre in primis sviluppare la nostra percezione di autoefficacia e parallelamente sviluppare il più possibile le nostre capacità volizionali che altro non sono le capacità di perseverare fino al raggiungimento dell’obiettivo prefisso.

L’autoefficacia è un ingrediente fondamentale della automotivazione, non va confusa con la autostima in quanto la prima rappresenta la mia convinzione di riuscita in contesti delimitati (nello sport, nel lavoro, ecc.) mentre la seconda è la percezione generale del mio valore come persona; ciò significa che posso avere un basso senso di autoefficacia rispetto alla possibilità di cucinare un determinato piatto senza però che questo intacchi il mio valore come persona.

L’autoefficacia si sviluppa attraverso esperienze di successo è in poche parole quella sensazione di “sentirsi capaci” di fare quella determinata cosa; la si sviluppa attraverso un circolo virtuoso che parte dall’impegno con cui affrontiamo le cose, l’impegno produce senso di competenza che a sua volta crea piacere e nuova motivazione a continuare a fare. Dobbiamo solo proteggerci dagli autosabotatori interni che non sono altro che processi cognitivi disfunzionali ovvero rischiano di contrastare fortemente il nostro senso di autoefficacia; sono rappresentati da credenze e convinzioni limitanti e da interpretazioni false della realtà: in ambito sportivo un esempio potrebbe essere: “il mio allenatore non mi ha fatto giocare perchè ritiene che non sia capace” quando in realtà nella testa dell’allenatore la spiegazione era dettata solo esclusivamente da scelte di natura tattica.

L’altro aspetto della resilienza è lo sviluppo delle capacità volizionali, trattandosi di forza di volontà, non sono semplici da allenare e sviluppare, possiamo però dire che queste capacità risiedono nelle aree prefrontali del cervello che sono quelle di più recente formazione del cervello umano e che sono tra le maggiori responsabili del funzionamento dell’attenzione, danno un grande contributo nel gestire le risposte emozionali e regolano i comportamente connessi all’autocontrollo. Come dicevo non è cosa semplice allenarle basti però sapere che ogni volta che facciamo uno sforzo di volontà, anche piccolo come resistere alla tentatazione di mangiare un cioccolatino, le aree prefrontali entrano in funzione. In un ambito sportivo ad esempio possiamo dire che nel momento in cui sentiamo di non farcela più occorre “spostare l’attenzione” da questi messaggi che il corpo ci invia al focus sul raggiungimento dell’obiettivo che significa concentrarci sul motivo per cui stiamo operando quello sforzo.

In conclusione, riprendendo il concetto con cui ho aperto il post, oggi è sempre più importante sviluppare la nostra personale resilienza, i tempi lo impongono, occorre tornare a ciò da cui i nostri nonni sono partiti dopo la guerra, loro si che erano resilienti, un concetto che abbiamo perso nel tempo abituati ai periodi di vacche grasse che si sono succeduti; oggi ringraziando iddio non siamo alla fine di una guerra ma per certi versi è come se ci fossimo, dobbiamo ripartire con grosso senso di responsabilità e sacrificio a ricostruire dalle macerie che la crisi ci ha lasciato e questo possiamo farlo solo trovando la motivazione dentro di noi perchè nessuno ci regalerà nulla.

Alla prossima!!