Relazioni Industriali

Ignoranza oppio dei popoli

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Relazioni SindacaliBruno Bauer, filosofo e teologo tedesco, nel lontano ‘800 diceva che la religione è l’oppio dei popoli (si Bauer non Marx a cui erroneamente si affibbia la citazione), a distanza di molti anni mi sento di dire che il vero oppio dei popoli è l’ignoranza.

Ignoranza intesa come non conoscenza, mancanza assoluta di informazioni per poter decidere in piena autonomia e consapevolmente di se, del proprio futuro, di cosa è bene e cosa è male, di poter replicare in modo compiuto e con un senso a chi pretende di essere il depositario della conoscenza che spesso, invece, racconta ciò che gli fa comodo proprio contando sulla mancanza di argomenti dell’altra parte, con cui poter ribattere.

La storia è piena di situazioni di questo tipo, non è un caso che nell’antichità le scuole erano riservate solo ai ceti elevati, da sempre le grandi dittature, siano esse di destra come di sinistra, si sono basate sulla ignoranza dei propri cittadini, facendo leva su argomenti notoriamente definiti populisti, ovvero in grado di far presa sulla gente, nascondendo ai più la verità e la possibilità di ribattere a chi pretendeva di essere depositario della verità assoluta.

La cosa che mi lascia perplesso, per non dire esterrefatto, è che ancora oggi questa massima è più che mai attuale; “ma come?” Direte voi, “siamo nel 2013 e ancora parli di ignoranza e di non conoscenza?” Ebbene si! Lo dico con profondo rammarico e, badate bene, non ho sicuramente l’arroganza e la superbia di dire che solo io sono conosco la verità, sarei paragonabile ad uno dei dittatori di cui sopra; intendo dire è che ogni giorno ho dimostrazione che in Italia (ma la cosa vale per molte parti del mondo) sono ancora in molti ad essere privi di conoscenza e conseguentemente a non essere liberi di poter prendere le proprie decisioni possedendo in mano tutte le carte da giocarsi.

Gli ambiti sono plurimi si va dalla politica alla vita di tutti i giorni, chiaramente per quello che è l’oggetto di questo blog mi soffermo solo sul lato lavoro. Mi accorgo ogni giorno di più che ci sono trattative sindacali che trattano, purtroppo, del ridimensionamento quanto non addirittura della chiusura di molte aziende, portate avanti dalle parti sociali che pensando di fare l’interesse dei lavoratori, si trovano a fare l’esatto contrario.

Spesso sono le stesse RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie) interne (ovvero lavoratori interni all’azienda che sono eletti dai propri colleghi in loro rappresentanza) che anziché seguire i consigli dei propri referenti delle varie sigle sindacali, si prendono carico di decidere del destino dei propri colleghi senza essere a conoscenza di tutte le reali opportunità che possono esserci anche in situazioni drammatiche come quella della perdita del posto di lavoro.

Tutto questo perché? Perché l’ignoranza lascia oscura tutta una parte di informazioni che potrebbe aiutarli a prendere la giusta decisione. Spesso quando si parla di licenziamenti, ci si ferma alla sola trattativa sull’ammontare delle somme monetarie come incentivo all’esodo ed al prolungamento massimo degli ammortizzatori sociali (CIGS o CIGS in deroga, mobilità) senza considerare che a questi, possono affiancarsi altri strumenti altrettanto utili per i lavoratori e per l’azienda stessa: parlo di outplacement chiaramente ma anche di reindustrializzazioni dei siti produttivi dismessi.

Spesso questi strumenti possono combinarsi per ottenere il massimo risultato che alla fine è pur sempre la salvaguardia del posto di lavoro: va da se che nel caso in cui siamo in presenza della chiusura di un sito produttivo, agli strumenti classici di cui sopra, si potrebbe tranquillamente affiancare la consulenza di società specializzate che si preoccupano di trovare nuovi investitori in grado di subentrare alla vecchia proprietà e recuperare il sito produttivo con altre produzioni, reimpiegando una buona parte dei lavoratori, per i restanti l’azienda si può avvalere di una società di outplacement che si occuperà della loro ricollocazione.

Ci sono esempi di successo in tal senso anche qui in Italia, occorre però che alla base ci sia la conoscenza di questi strumenti da parte di tutti gli attori in campo: azienda, parti sociali, lavoratori. Spesso non tutte le parti in causa conoscono queste opportunità o in alcuni casi quando queste vengono proposte nella trattativa vengono bocciati ancor prima che possano arrivare ai veri interessati, ovvero i lavoratori.

Torniamo quindi all’assunto iniziale, come sempre pochi e malinformati si prendono carico di decisioni, spesso anche solo per partito preso, che decideranno il futuro di altri che subiranno passivamente senza poter essere artefici veri del proprio destino.

Occorre aprire ad una nuova era delle relazioni industriali, un’era non più basata sullo sbattere i pugni sul tavolo e sul dire no a priori, una nuova stagione improntata al dialogo ed alla conoscenza, alla disponibilità ad apprendere e a coinvolgere tutti coloro che sono i destinatari finali della trattativa perché l’ignoranza è l’oppio dei popoli.

Alla prossima!!

AMMORTIZZATORI SOCIALI: vogliamo rivederli??

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In tutto questo parlare di riforme strutturali del sistema Italia, spiccano senza dubbio le riforme inerenti il mercato del lavoro, ne ho parlato già diverse volte e non finirò certo oggi di farlo, visto che siamo solo agli inizi della trattativa tra le parti sociali ed il Ministro Fornero.

Oggi però voglio toccare il tema degli ammortizzatori sociali, un tema senza dubbio scottante perché va a toccare il sostegno ai redditi di tutti coloro oggetto di CIG, CIGS, mobilità, disoccupazione e chi più ne ha più ne metta. Non occorre un genio per capire che, in un momento come quello che sta attraversando il nostro Paese, discutere di una riforma degli ammortizzatori può sembrare fuori luogo, personalmente credo non sia così e tenterò di spiegarvi i motivi.

Parlo a ragion veduta, nel mio lavoro di consulente di outplacement, specie quando si tratta di gestire programmi collettivi, capitano operai ed impiegati che affrontano il programma di ricollocazione mentre sono ancora in cassa integrazione straordinaria; ebbene spesso, invece di accettare un nuovo lavoro preferiscono rinunciare al ricollocamento per rimanere in cassa integrazione (magari fanno anche un secondo lavoro in nero). La rimostranza che potrebbe essere fatta e che si rifà anche alla normativa in atto è “ma se la proposta non è congrua con la posizione da loro ricoperta precedentemente fanno bene a dire di no”; chiaramente non stiamo parlando di offerte di lavoro palesemente inferiori ma spesso equivalenti o leggermente inferiori a quella da cui si è usciti; occorre infatti ricordare che rimanere per troppo tempo fuori dal mercato del lavoro non è mai salutare, men che meno in un periodo come quello attuale, ecco perché suggerisco sempre di accettare proposte di lavoro anche se sono leggermente inferiori a quella da cui si esce, rimettersi in gioco per poi risalire.

Quello che però voglio far notare in questo post è l’assurdità dell’attuale sistema di gestione degli ammortizzatori sociali, in un caso come quello sopra ad esempio credo sia giusto che il lavoratore perda il diritto di rimanere in cassa.

L’altro aspetto errato riguarda le imprese, spesso viene fatto un uso improprio dell’ammortizzatore sociale, in un periodo come quello di oggi, la trafila: CIG, CIGS, CIG in deroga e mobilità nascondono solamente un destino dei lavoratori coinvolti già segnato sin dall’inizio e questo lo sanno sia le imprese che i sindacati. L’uso della trafila è solo un rinvio del problema, una presa in giro per i lavoratori unito ad uno sperpero di soldi che, come abbiamo visto sopra, serve solo ai lavoratori per avere una retribuzione a cui aggiungerne spesso un’altra in nero (non sempre chiaramente), rimanere fuori dal mercato del lavoro per troppo tempo con il rischio di non rientrarci più ed alle imprese ad avere la coscienza pulita rimandando una scelta già decisa. Lo sperpero di risorse è ancor più evidente se parliamo di cassa in deroga, in buona parte a carico dello Stato e quindi dei contribuenti.

Il mio può sembrare un discorso cinico, ma non lo è, il problema dell’occupazione non si risolve con l’uso distorto degli ammortizzatori sociali, ma ad esempio con politiche che facciano in modo che le imprese non abbandonino il suolo italiano delocalizzando all’estero per riuscire a competere con imprese estere che hanno un costo del lavoro ridicolo (basta vedere cosa succede nello stabilimento cinese a cui la Apple ha deciso di affidare la produzione di iPhone, iPad ecc.). Dall’altra parte anche i lavoratori, occorre dirlo fuori dai denti perché tutti gli operatori HR lo sanno, senza bisogno di fare di tutta un’erba un fascio, devono capire che l’ammortizzatore sociale non è una indennità che gli permette di stare a casa in panciolle, serve per dare un sostegno economico in un periodo in cui il lavoratore deve darsi da fare per trovare un nuovo lavoro, anche attraverso politiche attive del lavoro come l’uso di un programma di ricollocamento.

Ecco quindi che una riforma urge, a maggior ragione in un momento come quello attuale in cui l’uso dell’ammortizzatore dall’inizio della crisi è aumentato esponenzialmente.

Alla prossima!!

RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO: un tavolo in cui nessuno cede.

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Tavolo delle trattiveSeguo con molta curiosità le trattative in corso per la riforma del mercato del lavoro; chi segue questo blog con costanza, sa che è un tema a cui dedico particolare attenzione perché di fondamentale importanza non solo per il lavoro ma per lo sviluppo dell’intera nazione.

Le trattative sono iniziate ufficialmente ieri (2 Febbraio 2012) ma ufficiosamente, sono diverse settimane che governo e parti sociali lanciano messaggi sulla carta stampata, in tv, su internet, via social network; a tal proposito fate caso all’attività della CGIL (@cgilnazionale), mentre latita da tempo Confindustria (@confindustria) tanto che credo abbiano chiuso inspiegabilmente l’account; ulteriore dimostrazione di come la imprese italiane oggi, vadano forti a parole su innovazione e web 2.0 e poco o nulla nella pratica.

Ma torniamo a monte del discorso, parlavo della trattativa in atto, partita male con il primo incontro ufficiale di qualche settimana fa in cui il ministro Fornero si presentò con un foglio contenente le intenzioni del governo in materia di riforma del mercato del lavoro, a cui fece seguito la risposta negativa secca ed adirata non solo dei Sindacati ma anche di Confindustria, relegati quasi a semplici parti informate sui fatti.

Risultato, punto e accapo, strappato il documento ieri si è ripartiti da zero, in mezzo i soliti messaggi lanciati nell’etere e la battuta del premier Monti a Matrix circa la “noia di avere il posto fisso” e le conseguenti polemiche.

Leggo oggi con attenzione il resoconto dell’incontro di ieri e mi verrebbe quasi da ridere, come per la vicenda della Concordia, se non fosse che anche in questo caso, come in quello della nave della Costa Crociere, siamo in presenza di un problema grave e drammatico. Le cronache narrano di un tavolo delle trattative in cui ogni parte è arroccata sulla sua posizione, nessuno che sia intenzionato a cedere di un solo millimetro, anzi ogni parte cerca di trarre dalla trattativa un qualcosa di migliorativo rispetto alla attuale posizione.

Succede che i Sindacati apprezzino la parte della riforma che tenta di aumentare le assunzioni a tempo indeterminato disincentivando l’uso dei contratti a termine rendendoli più costosi, ma non vogliono sentire parlare dall’altra parte di flessibilità in uscita. Succede che Confindustria al contrario apprezzi la flessibilità in uscita ma che non voglia minimamente sentir parlare di aumentare costi sia per i contratti a termini sia per le indennità ed i servizi di ricollocamento per chi viene licenziato grazie alla flessibilità in uscita. In mezzo il Governo che, su questi temi, con fin troppa pazienza e disponibilità, cerca di andare incontro alle esigenze di tutti ricevendo due di picche a destra ed a manca, ma che fino ad ora non ha minimamente affrontato il problema della crescita dell’Italia a 360°.

Se queste sono le premesse, quelle dei soliti “furbetti” in cui ognuno cerca di fregare l’altro, finiremo nella solita riforma inconcludente, inutile e che non serve a nessuno, in primis ai giovani. Tutti devono fare un passo indietro, dimostrare maturità ed assumersi le responsabilità in un momento drammatico come questo per l’economia Italiana, facendo anche scelte che possono sembrare impopolari nel breve periodo e far perdere consensi, certi che nel lungo periodo le ripercussioni di queste scelte saranno positive ed i meriti di averle fatte saranno riconosciuti da tutti. Ci riusciranno??

Alla prossima!!

ARTICOLO 18: ma è davvero un tabù?

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In questi mesi la riforma del lavoro è balzata improvvisamente alla ribalta, con il risultato che oggi tutti parlano di temi che con molta probabilità in pochi conoscono realmente, con risultati pessimi.

Il mio lavoro in ambito risorse umane e la passione per le materie che lo riguardano, mi hanno portato a fare numerose letture e chiaccherate con persone esperte; mi sono fatto una idea più chiara su questo tentativo di riforma, che voglio condividere con voi.

Fulcro della riforma è il famigerato articolo 18, ovvero quell’articolo dello Statuto dei Lavoratori (redatto nel lontano 1970) che sancisce il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato; la norma così descritta sembra essere sacrosanta, ma se andiamo ad analizzarla in profondità scopriamo che così non è, ecco il perché.

Per prima cosa l’articolo in questione si applica alle aziende che occupano più di 15 lavoratori, per tutte le altre no; in Italia ufficialmente ci sono molte più aziende che hanno 15 o meno dipendenti (quindi non rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 18) di quelle che ne hanno più di 15; ma se analizziamo bene i numeri scopriamo che la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti lavora nelle aziende sopra i 15 dipendenti, perchè in quelle tante “aziende” classificate nella soglia inferiore, in realtà si annidano le partite iva cosiddette “fasulle”, ovvero quei lavoratori a p.iva che in realtà sono mono-committenti (lavorano per un’unica azienda), sono quindi in realtà lavoratori dipendenti a tutti gli effetti ma non sono assunti dall’azienda, una “regolarissima” forma di elusione proprio dell’articolo 18.

Il secondo aspetto di cui tenere conto riguarda il fatto che l’applicazione dell’articolo 18 genera delle problematiche pesantissime per l’azienda che lo subisce (le vedremo dopo) tanto da indurre le aziende a ridurre il numero dei lavoratori subordinati, aumentando l’uso di tutte quelle forme di lavoro che evitano all’azienda stessa l’assunzione diretta di personale, con il risultato che è oggi sotto gli occhi di tutti, il precariato a vita. In sostanza oggi in Italia, come dice Ichino, ci sono lavoratori di serie A (costituita dai lavoratori subordinati regolari assunti a tempo indeterminato) e di serie B (tutti gli altri); i primi godono di tutte le protezioni del caso, i secondi di poco o nulla a seconda della tipologia di contratto con cui sono assunti.

Parlavo di problematiche legate all’applicazione dell’articolo 18, riguardano sostanzialmente il fatto che se una azienda va in giudizio con un dipendente cha ha impugnato il licenziamento ritenendolo ingiusto (non entro nel merito se lo sia realmente o meno), sa quando inizia ma non sa quando e come finisce. I processi di diritto del lavoro durano in media 6 anni, con record negativi di 12 e record positivi di tre/quattro anni; anche ipotizzando che l’azienda possa aver vinto tutte le battaglie, se non vince l’ultima è comunque chiamata a: reintegrare il lavoratore, pagargli tutte le mesilità dal momento del licenziamento (rivalutate chiaramente), pagare i contributi e relativa sanzione per averli omessi durante tutta la durata del processo, le relative spese processuali e se il lavoratore non vuole essere reintegrato, pagare una indennita di 15 mensilità al lavoratore stesso. Capite bene come ci siano aziende (PMI in particolare) che hanno rischiato, per un lavoratore, di chiudere e mettere sulla strada tutti i restanti lavoratori. Risulta chiaro, a fronte di quanto riportato, che se una azienda decide di ricorrere in giudizio, lo fa a ragion veduta eppure spesso non basta, i rischi di uscire sconfitti in giudizio sono elevati come abbiamo visto; logica conseguenza per le aziende, specialmente medio piccole, è quella di salvaguardarsi da questo rischio usufruendo ed abusando spesso di forme di lavoro precario, vuoi per riuscire  a non superare la fatidica soglia dei 15 dipendenti, vuoi perchè in quel modo sono liberi di chiudere il rapporto di lavoro quando vogliono, non è quindi l’articolo 18 un freno allo sviluppo delle aziende e del mercato del lavoro che dovrebbe proteggere??

Ci sarebbe ancora molto da parlare, chiudo con una annotazione nei confronti del sindacato (qualsiasi sigla), è indubbio che la presenza del sindacato è stata ed è fondamentale per la salvaguardia dei diritti dei lavoratori, occorre però che oggi facciano uno scatto in avanti e non mettano veti a prescindere a qualsiasi riforma del diritto del lavoro che, come abbiamo visto, sono spesso controproducenti per gli stessi lavoratori che dovrebbero proteggere. Credo che la riforma proposta da Ichino sia una delle proposte migliori da prendere in esame e su cui il governo tecnico sta lavorando, obbligare tutti all’assunzione a tempo indeterminato in cambio di una maggiore flessibilità in uscita per motivi economico-organizzativi con relative indennità e sostegno alla ricollocazione, aprirebbe sicuramente le porte allo sviluppo e farebbe terminare questa disparità enorme tra lavoratori di serie A e di serie B.

Alla prossima

IMPIEGO PUBLICO: riforma possibile?

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Riforma BrunettaInizio il 2012 affrontando un argomento che spesso, troppo spesso, i governi siano essi di centrodestra che di centrosinistra, adorano mettere tra i punti cruciali del loro programma elettorale ma che poi, nella pratica, viene rigorosamente irrealizzato, la riforma dell’impiego pubblico.

Premetto che non parlo solo a titolo di persona che opera quotidianamente con le risorse umane ma anche in qualità di consigliere comunale di opposizione di un piccolo comune di tremila anime (Monsano – AN), quindi come persona direttamente coinvolta nei processi di gestione delle risorse umane nel pubblico.

La riforma Brunetta che sembrava essere la prima riforma seria del settore, in realtà con il passare del tempo si è svuotata di contenuti e ad oggi possiamo tranquillamente dire che è naufragata. Perché? Andiamo a vedere:

Il primo segnale è dato dall’ente che avrebbe dovuto, in forma autonoma ed indipendente, valutare le performance delle varie amministrazioni pubbliche il CIVIT (Commissione per l’Integrità, la Valutazione, la Trasparenza delle amministrazione pubbliche) che è praticamente tutto fuorché indipendente essendo i membri nominati dal governo anche se poi devono essere ratificati dal parlamento.

Il presidente è Antonio Martone, magistrato di Cassazione che fino a poco prima della nomina era presidente della Commissione di Garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici; nome che andrebbe anche bene se non che si scopre che pochi mesi prima dell’insediamento, il figlio Michel ha ricevuto incarico per una consulenza di 40.000,00 € dallo stesso Brunetta su di un tema a dir poco di secondaria importanza “i problemi giuridici della digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche di paesi terzi” (se fate una ricerca in Google sull’argomento potrete anche approfondire, argomento tra l’altro evidenziato anche da Ichino nel suo ultimo libro Inchiesta sul Lavoro). Capite bene che in un momento di crisi come quello attuale, sperperare soldi in questo modo fa sorgere quantomeno dei forti dubbi sull’utilità della consulenza. La cosa che più mi sconcerta è che lo stesso Michel Martone oggi è Vice Ministro del Lavoro dell’attuale governo tecnico Monti. Ma se andate ad approfondire vedrete che ci sono altre consulenze bislacche che lasciano abbastanza basiti.

Il secondo punto riguarda il fatto che dalla riforma vengono esclusi prima tutti i lavoratori pubblici della Presidenza del Consiglio e poi tutti quelli del dicastero dell’Economia, come mai? In queste strutture c’è personale che può operare in forma indipendente, lontano da qualsiasi giudizio? Non credo.

Il terzo punto riguarda gli obiettivi che dovrebbero essere dati ai vari dirigenti pubblici, obiettivi che dovrebbero essere raggiungibili e misurabili, sulla base dei quali operare azioni premianti o penalizzanti come il percepire o meno incentivi o il rischio stesso della perdita del posto di lavoro da parte del dirigente che non raggiunge gli obiettivi concordati. Questo è un tasto estremamente dolente, perché tali obiettivi o non ci sono per niente (nella maggioranza dei casi) o vengono, chissà perché, sempre raggiunti. Un aneddoto del mio Comune per spiegare cosa succede nella PA: in fase di approvazione del bilancio il revisore dei conti nelle note al bilancio stesso recita testualmente “si ribadisce che in relazione alla contrattazione decentrata è opportuno che gli obiettivi siano definiti prima dell’inizio dell’esercizio e in coerenza con quelli di bilancio ed il loro conseguimento costituisca condizione per l’erogazione degli incentivi previsti dalla contrattazione integrativa (art. 5, comma uno del d.lgs. 150/2009).” Cosa significa? A voi la deduzione…

Il quarto ed ultimo punto che ci fa capire che la riforma Brunetta è naufragata riguarda il fatto che nel Maggio 2010, Tremonti vara una manovra che di fatto ha tagliato i fondi per i premi ai meritevoli. A questo si unisce l’intesa firmata da Brunetta con Cisl, Uil ed Ugl di Febbraio 2011, in cui si garantisce che a nessuno, anche se inefficiente, verrà tolto un euro dal salario accessorio.

In chiusura mi domando, perché in Italia vogliamo ancora tenere separato impiego pubblico da impiego privato? Credo che uno dei passi che potrebbero avvicinarci al resto d’Europa (in particolare alle regioni nordiche da sempre all’avanguardia in questo campo e fonte inesauribile di benchmark), sia proprio quello di far capire a tutti che qualsiasi tipo di lavoro deve essere valutato in egual misura, senza creare privilegiati (settore pubblico) e disagiati (settore privato), credo sia un atto di civiltà.

Nell’agenda del governo tecnico dovrebbe essere presente anche questo tipo di riforma; al momento mi sembra che sono diversi i settori toccati dalla manovra ed altri ne saranno toccati ma non quello pubblico (sfiorato appena con la riforma delle pensioni).

Alla prossima e… Buon Anno!!!

LE PAROLE CHIAVE DELLE NUOVE RELAZIONI INDUSTRIALI

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La Manifattura Tabacchi di ChiaravalleUna cosa che non ho mai menzionato nei post che ho scritto sino ad ora è il fatto che sono, immeritatamente, Vice Presidente di AIDP Marche (Associazione Italiana per la Direzione del Personale), nei giorni scorsi abbiamo organizzato un incontro in cui si è discusso di nuove relazioni industriali, argomento oggi più che mai di attualità e che riprende il post che ho pubblicato due settimane fa.

Relatori due esimi rappresentanti della Confindustria locale e confinante, Paolo Centofanti come referente dell’Area Relazioni Industriali di Confindustria Ancona e Fabio Scalzini parigrado di Confindustria Pescara, oltre all’importante presenza del Presidente Nazionale di AIDP Filippo Abramo. Presenti all’incontro numerosi HR Manager di diverse aziende marchigiane, tra i quali Ampelio Ventura HR Director dello stabilimento CNH di Jesi che ci ha brillantemente illuminato sulle motivazioni che hanno portato il gruppo FIAT ad uscire dalla contrattazione nazionale.

Oltre a dare un quadro normativo ad oggi delle relazioni industriali, il dibattito è stato interessante perché, in una sorta di brain-storming collettivo, si è pensato di redigere una sorta di vocabolario delle nuove relazioni industriali, mettendo in evidenza quelle che oggi, per noi di AIDP Marche, sono le parole chiave; ecco quelle che, secondo me, sono le più importanti:

ORGOGLIO

Occorre ritrovare l’orgoglio del proprio posto di lavoro. Un aneddoto: mio suocero è in pensione da pochi anni, ha lavorato una vita in manifattura tabacchi a Chiaravalle (AN), pur non essendo mai stato un fumatore, è sempre andato molto orgoglioso del suo posto di lavoro. Mi racconta spesso di giorni passati a risolvere problemi sulle macchine o di quando occorreva dare il massimo, per delle consegne superiori alla media; è sempre stato uno molto vicino al sindacato, ma non per questo ha mai lesinato impegno e passione, oggi in casa ha ancora la gigantografia della Manifattura di Chiaravalle (la foto ad inizio post) che mostra fiero a parenti e amici; quanti sono oggi i lavoratori che si recano nelle aziende, orgogliosi del proprio posto di lavoro?

WELFARE

Paradossalmente occorre tornare all’antico, se ci pensate una volta le aziende erano molto più vicine ai lavoratori, c’erano già gli asili nido aziendali ( quelli delle cartiere, delle filande, delle manifatture tabacchi), alcune offrivano le colonie estive per i figli degli operai, occorre tornare a percorrere quella strada. Le aziende devono integrare all’interno della contrattazione anche il welfare, non solo con gli esempi sopra riportati ma anche attraverso quelle iniziative tese a garantire un miglior futuro previdenziale ed assistenziale. Indubbiamente in questo ambito le aziende “ricche” possono da sole offrire molto di più; dovranno essere le istituzioni (Regioni) a stanziare fondi per le aziende più piccole, che sicuramente non possono mettere sul piatto risorse importanti come le big company.

TERRITORIO

Occorre una maggiore integrazione tra impresa e territorio, esistono già molti esempi di ottima integrazione impresa-territorio (mi viene in mente TOD’S che costruisce una scuola per il comune di Casette D’Ete) ma sono ancora sporadiche. Integrarsi con il territorio significa in fin dei conti, aumentare l’orgoglio ed il senso di appartenenza dei lavoratori e quindi la produttività, unitamente ad essere essa stessa una forma di welfare.

FIDUCIA

Se non c’è fiducia tra le parti che si siedono al tavolo delle trattative sindacali, non si riuscirà mai a concludere nulla e le contrapposizioni saranno sempre più forti e gli scogli diventeranno insormontabili.

FLEXSECURITY

Un termine che ormai conosciamo bene, chi mi segue con costanza sa già che ho affrontato l’argomento diverse volte; l’importanza di uscire dalla vecchia logica del posto fisso dando flessibilità alle imprese in uscita per motivi di natura economica ed organizzativa, salvaguardando comunque il futuro dei lavoratori attraverso: un’indennità di licenziamento e un trattamento complementare di disuccupazione a carico delle aziende, unitamente ad un processo obbligato di ricollocamento sempre a carico delle aziende. Il provvedimento, ideato dal Prof. Ichino, permetterà, contemporaneamente, di combattere la precarietà dilagante di oggi, obbligando le aziende (in cambio della flessibilità in uscita) all’assunzione a tempo indeterminato di tutti i nuovi assunti; non c’è dubbio che sia la scelta migliore da farsi in questo momento storico. Inutile raccontarsi frottole, il mercato del lavoro è cambiato e lo ha fatto alla velocità della luce negli ultimi anni, le regole sono rimaste ancorate ad un mondo che non esiste più.

Chiudo parlando del caso FIAT ed all’uscita dalla contrattazione nazionale; Ventura di CNH durante l’incontro, in tre parole ha riassunto le motivazioni che hanno portato FIAT a questa drastica decisione:

EFFETTIVITA’ delle norme: oggi a fronte di norme introdotte si trova sempre il modo di aggirarle o di metterle in discussione.

TEMPI brevi per la chiusura delle trattative: siamo ancora ancorati ad un meccanismo troppo legato alle parole, i mercati hanno tempi diversi.

RESPONSABILITA’: si fanno accordi che poi vengono regolarmente disattesi, senza che questo faccia scattare alcuna sanzione per chi non le rispetta; questo non può più accadere ognuno deve prendersi le sue responsabilità.

Alla prossima

RELAZIONI INDUSTRIALI: si cambia

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20111123-132719.jpg La notizia, ampiamente prevedibile di FIAT che dopo essere uscita da Confindustria recede, dal primo Gennaio 2012, dai contratti collettivi nazionali e non, applicati nel gruppo, sancisce l’avvio ufficiale di un nuovo modo di vedere le relazioni industriali.

Entriamo a pieno ritmo nella fase B, si cambia, basta con i CCNL nazionali ingessati, si parte con la contrattazione sempre più spinta a livello decentrato, come del resto, cambieranno le norme che ad oggi regolano il diritto del lavoro.

Qualche settimana fa ho parlato nel mio post “FLEXSECURITY: un nuovo codice del lavoro è possibile”, del disegno di legge che il Senatore del PD e Professore Pietro Ichino ha presentato in parlamento, un disegno di legge che prevede il ridisegno completo delle relazioni industriali e del codice del lavoro a vantaggio di una maggiore flessibilità per le imprese ma anche di maggiori garanzie per i lavoratori, in particolare per tutti coloro che oggi sono precari.

Nel frattempo il governo Berlusconi è caduto, al suo posto un governo prettamente tecnico, chiamato a fare quello che, purtroppo, la politica oggi non è più in grado di fare, chiusa com’è negli interessi di partito che tutto hanno a che vedere tranne che con il bene della Nazione e dei cittadini.

Spinto dalla lettura della lettera inviata dal Prof. Ichino al Corriere della Sera e pubblicata nel numero di sabato scorso, ho scritto una email al senatore inerente i temi trattati nella missiva; eccone un’estratto:

Gentile Prof. Ichino,

Ho letto con molto piacere la sua lettera pubblicata oggi sul Corriere della Sera; forse mi sbaglio ma dalle sua parole mi sembra di aver capito che la riforma del diritto del lavoro che il governo Monti attuerà sarà quella da lei proposta attraverso la sua idea di Flexsecurity, mi sbaglio?

….

La Prof.ssa Fornero è senza dubbio la persona che porterà a termine la riforma delle pensioni, da sempre suo cavallo di battaglia, temevo però per la riforma del diritto del lavoro su cui, avendo letto curriculum e articoli, non vedevo la Prof. Fornero così preparata come lo poteva essere lei, visto anche il suo progetto già bello pronto ed estremamente valido; leggere che probabilmente sarà la sua idea di Flexsecurity a venir adottata non può che tranquillizzarmi in questo senso.

….

Cordiali Saluti

Riccardo Zuccaro

Molto gentilmente il Prof. Ichino mi ha risposto con poche righe ma estremamente chiare ed apprezzabili, che trovate qui di seguito:

Caro Zuccaro,

sarei stato io il ministro del Lavoro se non fosse prevalso il veto per tutti i parlamentari. Ma in quel caso sarebbe mancata a me la competenza in materia di economia del Welfare, di cui invece Elsa Fornero dispone in misura eccellente.

In ogni caso, non dubiti, la collaborazione sarà strettissima.

Grazie per l’attenzione e per il messaggio.

Pietro Ichino

Come dicevo all’inizio, siamo ormai a tutti gli effetti alla fase B delle relazioni industriali, una fase dovuta, per riportare l’Italia sulla retta via; la spinta della FIAT non fa altro che accelerare un processo fin troppo frenato. I sindacati, CGIL compresa, dovranno abbracciare questo nuovo corso, proprio per garantire ancora lavoro ai loro rappresentati, l’alternativa è che il sistema produttivo italiano si ripieghi su stesso, causando la perdita irrimediabile di migliaia di posti di lavoro. Sono in grado i sindacati di prendersi questa responsabilità?

Mi permetto di fare una considerazione personale: nella lettera che la UE ha inviato al governo italiano per la richiesta di chiarimenti sui provvedimenti segnalati dal governo Berlusconi, c’è un passaggio in cui ci viene espressamente richiesto se la riforma dei contratti collettivi nazionali preveda anche la riduzione del numero degli stessi; ebbene credo sia il caso di prendere in considerazione questa richiesta. Credo che occorra rivedere i contratti collettivi, definendo una unica intelaiatura di base a livello nazionale che definisca il nocciolo di diritti inviolabili validi per tutti i lavoratori, declinando il resto alle singole contrattazioni specifiche di secondo livello, azienda per azienda. Parallelamente il progetto FLEXSECURITY presentato dal Prof. Ichino è sicuramente la forma migliore per redigere e semplificare un nuovo codice del lavoro, rendendo l’Italia, nuovamente appetibile per gli investitori stranieri oltre che per la nascita di nuove realtà imprenditoriali italiane ed il consolidamento di quelle esistenti.

Alla prossima

FLEXSECURITY: un nuovo codice del lavoro è possibile.

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Torno a parlare di outplacement dopo qualche settimana dal post “Outplacement: ammortizzatore sociale attivo”; ritorno sull’argomento perché come anticipato già in quella occasione, anche la politica sembra finalmente essersi accorta delle opportunità offerte dalla ricollocazione professionale, specialmente in un periodo come quello odierno che vede le aziende alle prese con ristrutturazioni e riorganizzazioni che inevitabilmente si ripercuotono sui lavoratori.

Il Professore e Senatore Pietro Ichino, noto giuslavorista ed esperto di diritto del lavoro, ha presentato un disegno di legge (1873/2009) già qualche anno fa in cui introduce un codice del lavoro semplificato che in 70 articoli sintetizza tutta la disciplina legislativa dei rapporti di lavoro. All’interno del ddl che vi invito a leggere, viene inserito il concetto di FLEXSECURITY, termine che integra le parole flessibilità e sicurezza, cosa questa che può sembrare in antitesi ma che in realtà è assolutamente complementare; per la prima volta si parla di flessibilità reale non di precariato.

Sono diversi i punti chiave del ddl come ci ricorda il prof. Ichino, in particolare in questa sede mi preme parlare di alcuni che affrontano il tema licenziamenti.

In particolare per i licenziamenti dettati da motivi economici e/o organizzativi anziché procedere con il controllo giudiziale, si opera sulla responsabilizzazione dell’impresa per la ricollocazione del/dei lavoratori coinvolti nel processo di riorganizzazione. Al lavoratore che ha maturato almeno due anni di anzianità di servizio, una volta licenziato per i motivi di cui sopra, si applica il contratto di ricollocazione che prevede:

–       un trattamento complementare di disoccupazione

–       l’attivazione di servizi di outplacement e di riqualificazione professionale il costo di questi servizi sarà a carico della Regione anche attraverso i contributi del FSE (Fondo Sociale Europeo).

Come si vede dunque si sancisce esattamente quello che riportavo nel mio post menzionato inizialmente, ovvero il coinvolgimento finanziario anche delle istituzioni nel processo di ricollocamento.

Altro aspetto importante è che nel contratto di ricollocazione si affida il lavoratore ad una società di outplacement scelta dall’azienda, che assiste il lavoratore nel processo di ricollocamento e ne controlla la disponibilità e l’effettiva pro-attività nei confronti della ricerca di un nuovo posto di lavoro anche perché ad essa è legata la condizionalità del trattamento di disoccupazione. Questo devo dire essere un passaggio che già alcune società stanno realizzando nei loro accordi sindacali che trattano le riorganizzazioni, almeno per quello che è la mia esperienza avuta, su un paio di casi in cui sono stato recentemente coinvolto come operatore di outplacement.

Mi auguro che questo ddl veda la luce il prima possibile perché permetterebbe di arrivare a quel concetto, a me tanto caro, di responsabilità sociale di impresa e delle istituzioni nei confronti dei lavoratori e renderebbe attuabile per le aziende la tanto agoniata flessibilità.

Alla prossima