Mese: ottobre 2011

FLEXSECURITY: un nuovo codice del lavoro è possibile.

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Torno a parlare di outplacement dopo qualche settimana dal post “Outplacement: ammortizzatore sociale attivo”; ritorno sull’argomento perché come anticipato già in quella occasione, anche la politica sembra finalmente essersi accorta delle opportunità offerte dalla ricollocazione professionale, specialmente in un periodo come quello odierno che vede le aziende alle prese con ristrutturazioni e riorganizzazioni che inevitabilmente si ripercuotono sui lavoratori.

Il Professore e Senatore Pietro Ichino, noto giuslavorista ed esperto di diritto del lavoro, ha presentato un disegno di legge (1873/2009) già qualche anno fa in cui introduce un codice del lavoro semplificato che in 70 articoli sintetizza tutta la disciplina legislativa dei rapporti di lavoro. All’interno del ddl che vi invito a leggere, viene inserito il concetto di FLEXSECURITY, termine che integra le parole flessibilità e sicurezza, cosa questa che può sembrare in antitesi ma che in realtà è assolutamente complementare; per la prima volta si parla di flessibilità reale non di precariato.

Sono diversi i punti chiave del ddl come ci ricorda il prof. Ichino, in particolare in questa sede mi preme parlare di alcuni che affrontano il tema licenziamenti.

In particolare per i licenziamenti dettati da motivi economici e/o organizzativi anziché procedere con il controllo giudiziale, si opera sulla responsabilizzazione dell’impresa per la ricollocazione del/dei lavoratori coinvolti nel processo di riorganizzazione. Al lavoratore che ha maturato almeno due anni di anzianità di servizio, una volta licenziato per i motivi di cui sopra, si applica il contratto di ricollocazione che prevede:

–       un trattamento complementare di disoccupazione

–       l’attivazione di servizi di outplacement e di riqualificazione professionale il costo di questi servizi sarà a carico della Regione anche attraverso i contributi del FSE (Fondo Sociale Europeo).

Come si vede dunque si sancisce esattamente quello che riportavo nel mio post menzionato inizialmente, ovvero il coinvolgimento finanziario anche delle istituzioni nel processo di ricollocamento.

Altro aspetto importante è che nel contratto di ricollocazione si affida il lavoratore ad una società di outplacement scelta dall’azienda, che assiste il lavoratore nel processo di ricollocamento e ne controlla la disponibilità e l’effettiva pro-attività nei confronti della ricerca di un nuovo posto di lavoro anche perché ad essa è legata la condizionalità del trattamento di disoccupazione. Questo devo dire essere un passaggio che già alcune società stanno realizzando nei loro accordi sindacali che trattano le riorganizzazioni, almeno per quello che è la mia esperienza avuta, su un paio di casi in cui sono stato recentemente coinvolto come operatore di outplacement.

Mi auguro che questo ddl veda la luce il prima possibile perché permetterebbe di arrivare a quel concetto, a me tanto caro, di responsabilità sociale di impresa e delle istituzioni nei confronti dei lavoratori e renderebbe attuabile per le aziende la tanto agoniata flessibilità.

Alla prossima

FORMAZIONE, WEB 2.0: aziende coerenti o no?

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Il mio lavoro di consulente di outplacement mi porta a contatto oltre che con molte aziende, anche con molti candidati.

Recentemente mi capita sempre più spesso di trovarmi davanti a candidati che oltre a dover affrontare un periodo sicuramente non positivo, causa la cessazione del rapporto di lavoro, nel raccontare le propria esperienza lavorativa, lamentano, tra le altre cose, sempre più una discordanza tra quello che hanno acquisito negli studi (master e specializzazioni post laurea in particolare) ma soprattutto, tra quello che hanno appreso nei vari corsi di formazione, per la maggior parte, finanziati dalle stesse aziende e la realtà aziendale.

Un esempio: la scorsa settimana ho incontrato un dirigente che dopo aver fatto corsi di formazione pagati dall’azienda per cui lavorava, tenuti in prestigiose università o da prestigiosi formatori, su argomenti quali: delega, team working; tornato in azienda, si è sempre trovato bloccato nella presa di decisioni o nello stabilire obiettivi con il proprio team, perché il titolare puntualmente lo smentiva e non lasciava la minima delega, anche su argomenti estremamente banali.

Non basta; come ormai avrete capito sono un grandissimo fautore del web 2.0 che ritengo estremamente importante e fondamentale nel lavoro odierno, in particolare per chi, come me, opera nel mondo risorse umane.

Alcuni giorni fa mi sono imbattuto nei risultati di una recente sull’uso dei social network da parte delle aziende, realizzata della SDA Bocconi. Su un campione di 1080 aziende italiane o filiali italiane di aziende straniere, la ricerca ha fatto emergere che solo per il 20% delle aziende intervistate ritiene i social network di non interesse nel loro business. Peccato che subito dopo mi imbatto in un tweet di Enrico Bisetto in cui menziona questo post di Pietro Gugliotta dal titolo “Social Network bloccati nel 77% delle aziende italiane”.

Unendo le due tematiche ne è nata una riflessione che vorrei condividere con voi, magari ascoltando anche qualche vostro commento in merito; nell’immediato, partendo chiaramente dal presupposto che non si può fare di tutta un’erba un fascio, le domande che mi sono nate spontanee sono state: ma le aziende italiane credono nella formazione, nel web 2.0, oppure dicono di crederci solo perché la formazione è finanziata spesso dal FSE ed il web 2.0 è di moda?

Ampliando la riflessione la domanda è: le aziende italiane sono coerenti internamente con quanto comunicano all’esterno?

Alla prossima

INTELLIGENZA EMOTIVA: quando le emozioni ci guidano

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Dopo il post “Emozionare per farsi scegliere”, torno a parlare di emozioni, di quanto sia importante riconoscerle, controllarle ed usarle (in senso positivo) a proprio favore, per il proprio benessere e nei rapporti con gli altri; proprio per far si che le persone che incontriamo si emozionino e ci scelgano: nel lavoro così come nella vita di tutti i giorni.

Sto parlando di “Intelligenza Emotiva” quel meraviglioso concetto sviluppato da Daniel Goleman, che la definisce appunto come “la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali”.

Una cosa completamente diversa dall’intelligenza cognitiva che solitamente si misura con il Q.I. e che spesso ci regala grandi menti, incapaci di relazionarsi con gli altri e con grandi problemi di comunicazione; al contrario della intelligenza cognitiva, l’intelligenza emotiva può essere allenata e sviluppata ogni giorno della nostra vita, anzi migliora con gli anni. Un esempio? Quante volte ci è successo da giovani o nelle prime esperienze lavorative, di non controllare le emozioni, di esplodere in malo modo e di perdere delle occasioni, di rompere delle relazioni salvo poi pentircene? Le stesse situazioni che si ripresentano, le affrontiamo con un approccio diverso: più tolleranti, con maggiore autocontrollo, ci adattiamo ai cambiamenti anziché respingerli e vediamo con più ottimismo situazioni che prima ci sembravano impossibili da gestire. Questo passaggio è frutto di uno sviluppo più o meno conscio della nostra intelligenza emotiva; ancora una volta aver vissuto un sentimento, una emozione ci ha permesso di riconoscerla quando si ripresenta e di gestirla in modo positivo e propositivo anziché viverla negativamente.

Goleman pone alla base della intelligenza emotiva due grosse competenze: la competenza personale e la competenza sociale. La prima determina il modo in cui controlliamo noi stessi attraverso la consapevolezza di se, la padronanza di se e la motivazione; mentre la seconda determina il modo in cui gestiamo le relazioni con gli altri attraverso l’empatia, ovvero la consapevolezza dei sentimenti, delle esigenze e degli interessi altrui e le abilità sociali che comportano abilità nell’indurre risposte desiderabili negli altri.

Tutto questo ci dice che per avere successo sia nella vita privata che in quella professionale, non basta avere un elevato Q.I., essere preparati ai massimi livelli, occorre anche sviluppare la nostra intelligenza emotiva che ci permette, per l’appunto, di essere scelti.

Alla prossima

COACHING: cosa è, cosa non è

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Oggi tocco il tema a me particolarmente caro perché credo molto in questo metodo di sviluppo delle potenzialità di ogni singola persona, gruppo di persone e organizzazioni, allo scopo di migliorarne le performance ed in senso lato la qualità della vita della persona.

Come per tutte le cose, anche nel mondo coaching esistono persone che applicano correttamente il metodo ed altre che invece spacciano come attività di coaching, cose completamente diverse, gettando discredito sulla metodologia.

Ho seguito diversi incontri sul tema, sto leggendo libri sul metodo ed in ultimo ho iniziato un percorso che mi porterà a diventare coach professionista; nell’ultimo incontro i miei insegnanti hanno proiettato un contributo tratto dal film di cui vedete la locandina a lato, ovvero Qualcosa di Speciale con Jennifer Aniston ed Aaron Eckhart, un film che ho visto tempo fa e che, pur parlando di una storia d’amore in realtà tocca anche temi di coaching o meglio in molti casi fa vedere proprio cosa non è coaching.

In questa scena, il gruppo di persone che stanno seguendo questo percorso formativo, è atteso alla prova della camminata sui carboni ardenti; uno degli allievi non si sente di farla ma il formatore insiste sollecitando ancor di più la ritrosia del candidato. Al di la del fatto che la camminata sui carboni non è assolutamente parte dell’attività di coaching (personalmente la ritengo una idiozia, ma rispetto chi la fa chiaramente ed al limite posso farla passare come formazione esperienziale), viene comunque meno uno dei principi base del Coaching, ovvero il rispetto del tempo della persona.

Come dicevo all’inizio nel coaching ci si focalizza su quanto di buono c’è nella persona, si esaltano le caratteristiche positive non quelle negative e si rispettano sempre i suoi tempi, senza forzare alcuna soluzione, perché il tempo è una risorsa che consente il cambiamento.

La nostra società è focalizzata sempre sul negativo, credo che ad ognuno di noi è capitato di sentirsi dire spesso cosa non siamo rispetto a quello che invece siamo, ecco nel coaching invece, si va verso una “cultura del riconoscimento” ovvero di ciò che siamo, di ciò che di bello abbiamo dentro, delle nostre positività.

Socrate già nel lontano 469 A.C. con la Maieutica può essere considerato come uno dei primi coach al mondo, attraverso l’arte dell’ascolto e della dialettica, riusciva a far acquisire ai suoi allievi progressiva consapevolezza della verità che era dentro di essi; famoso il suo “io so di non sapere”.

Alla prossima