Mese: marzo 2013

AUGURI DI BUONA PASQUA!!

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Johann Wolfgang Goethe
Johann Wolfgang Goethe

Oggi è Pasqua,

colgo l’occasione per augurare a voi ed alle vostre famiglie giorni sereni.

Ne abbiamo bisogno tutti, in particolare in momenti difficili come quelli che stiamo attraversando.

Dobbiamo però ricordarci che solo noi, con le nostre forze, siamo artefici del nostro destino.

Per tale motivo mi piace ricordare una frase a cui tengo molto e che ho già menzionato nel blog,

questa frase è affissa da tempo nel mio ufficio e mi ricorda ogni minuto che le chiacchere stanno a zero,

se non sei soddisfatto della tua situazione agisci, perché nessuno lo farà al posto tuo:

“Qualunque cosa sogni, cominciala.

L’audacia ha del genio, del potere, della magia.”

GOETHE

AUGURI!!

Riccardo Zuccaro

Ignoranza oppio dei popoli

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Relazioni SindacaliBruno Bauer, filosofo e teologo tedesco, nel lontano ‘800 diceva che la religione è l’oppio dei popoli (si Bauer non Marx a cui erroneamente si affibbia la citazione), a distanza di molti anni mi sento di dire che il vero oppio dei popoli è l’ignoranza.

Ignoranza intesa come non conoscenza, mancanza assoluta di informazioni per poter decidere in piena autonomia e consapevolmente di se, del proprio futuro, di cosa è bene e cosa è male, di poter replicare in modo compiuto e con un senso a chi pretende di essere il depositario della conoscenza che spesso, invece, racconta ciò che gli fa comodo proprio contando sulla mancanza di argomenti dell’altra parte, con cui poter ribattere.

La storia è piena di situazioni di questo tipo, non è un caso che nell’antichità le scuole erano riservate solo ai ceti elevati, da sempre le grandi dittature, siano esse di destra come di sinistra, si sono basate sulla ignoranza dei propri cittadini, facendo leva su argomenti notoriamente definiti populisti, ovvero in grado di far presa sulla gente, nascondendo ai più la verità e la possibilità di ribattere a chi pretendeva di essere depositario della verità assoluta.

La cosa che mi lascia perplesso, per non dire esterrefatto, è che ancora oggi questa massima è più che mai attuale; “ma come?” Direte voi, “siamo nel 2013 e ancora parli di ignoranza e di non conoscenza?” Ebbene si! Lo dico con profondo rammarico e, badate bene, non ho sicuramente l’arroganza e la superbia di dire che solo io sono conosco la verità, sarei paragonabile ad uno dei dittatori di cui sopra; intendo dire è che ogni giorno ho dimostrazione che in Italia (ma la cosa vale per molte parti del mondo) sono ancora in molti ad essere privi di conoscenza e conseguentemente a non essere liberi di poter prendere le proprie decisioni possedendo in mano tutte le carte da giocarsi.

Gli ambiti sono plurimi si va dalla politica alla vita di tutti i giorni, chiaramente per quello che è l’oggetto di questo blog mi soffermo solo sul lato lavoro. Mi accorgo ogni giorno di più che ci sono trattative sindacali che trattano, purtroppo, del ridimensionamento quanto non addirittura della chiusura di molte aziende, portate avanti dalle parti sociali che pensando di fare l’interesse dei lavoratori, si trovano a fare l’esatto contrario.

Spesso sono le stesse RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie) interne (ovvero lavoratori interni all’azienda che sono eletti dai propri colleghi in loro rappresentanza) che anziché seguire i consigli dei propri referenti delle varie sigle sindacali, si prendono carico di decidere del destino dei propri colleghi senza essere a conoscenza di tutte le reali opportunità che possono esserci anche in situazioni drammatiche come quella della perdita del posto di lavoro.

Tutto questo perché? Perché l’ignoranza lascia oscura tutta una parte di informazioni che potrebbe aiutarli a prendere la giusta decisione. Spesso quando si parla di licenziamenti, ci si ferma alla sola trattativa sull’ammontare delle somme monetarie come incentivo all’esodo ed al prolungamento massimo degli ammortizzatori sociali (CIGS o CIGS in deroga, mobilità) senza considerare che a questi, possono affiancarsi altri strumenti altrettanto utili per i lavoratori e per l’azienda stessa: parlo di outplacement chiaramente ma anche di reindustrializzazioni dei siti produttivi dismessi.

Spesso questi strumenti possono combinarsi per ottenere il massimo risultato che alla fine è pur sempre la salvaguardia del posto di lavoro: va da se che nel caso in cui siamo in presenza della chiusura di un sito produttivo, agli strumenti classici di cui sopra, si potrebbe tranquillamente affiancare la consulenza di società specializzate che si preoccupano di trovare nuovi investitori in grado di subentrare alla vecchia proprietà e recuperare il sito produttivo con altre produzioni, reimpiegando una buona parte dei lavoratori, per i restanti l’azienda si può avvalere di una società di outplacement che si occuperà della loro ricollocazione.

Ci sono esempi di successo in tal senso anche qui in Italia, occorre però che alla base ci sia la conoscenza di questi strumenti da parte di tutti gli attori in campo: azienda, parti sociali, lavoratori. Spesso non tutte le parti in causa conoscono queste opportunità o in alcuni casi quando queste vengono proposte nella trattativa vengono bocciati ancor prima che possano arrivare ai veri interessati, ovvero i lavoratori.

Torniamo quindi all’assunto iniziale, come sempre pochi e malinformati si prendono carico di decisioni, spesso anche solo per partito preso, che decideranno il futuro di altri che subiranno passivamente senza poter essere artefici veri del proprio destino.

Occorre aprire ad una nuova era delle relazioni industriali, un’era non più basata sullo sbattere i pugni sul tavolo e sul dire no a priori, una nuova stagione improntata al dialogo ed alla conoscenza, alla disponibilità ad apprendere e a coinvolgere tutti coloro che sono i destinatari finali della trattativa perché l’ignoranza è l’oppio dei popoli.

Alla prossima!!

Ritorno all’antica? No meglio guardare avanti.

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Grande Fratello in Azienda?
Grande Fratello in Azienda?

Da qualche giorno su settimanali e quotidiani si alternano articoli di vario genere inerenti il lavoro; in particolare si parla di tecnologia applicata al mondo lavorativo; fino a qui tutto bene, se non fosse che andando a leggere i contenuti degli stessi si rimane alquanto basiti e senza parole. Perchè? Scopriamolo insieme..

Su Panorama di qualche settimana si poteva leggere di Marissa Mayer, AD di Yahoo, che ha deciso di richiamare in ufficio tutti i suoi collaboratori a cui era stato concesso il telelavoro, sostanzialmente la possibilità per alcuni giorni della settimana di lavorare da casa sfruttando la tecnologia per rimanere connessi con la sede centrale e con i colleghi; motivo ufficiale della Mayer: “velocità e qualità del lavoro sono spesso sacrificate quando si opera da casa“.

Sul Corriere della Sera di mercoledì scorso, leggo invece un articolo dal titolo “Tessere con chip e sensori ovunque. Gli uffici dei dipendenti “tracciabili”“, un articolo che mi ha lasciato di sasso, praticamente un inno al grande fratello di orwelliana memoria, mascherato da le più candide intenzioni di misurazione delle performance per meglio incontrare le esigenze dei dipendenti.

Nell’articolo del Corriere si parla di uffici cosparsi di sensori Rfid che costano pochi euro in grado di registrare ogni singolo movimento nell’ufficio e di badge con microchip incorporato che misurano persino la durata delle soste in bagno; sulla carta tutto questo sarebbe fatto per analizzare i comportamenti dei dipendenti per verificare quale, tra questi, sarebbero i più adatti a migliorare la produttività del lavoro, trovando così il modo di incentivarli.

Alla base di tutto ci sarebbe la convinzione che aumentando la socialità sul lavoro, ovvero l’interazione tra colleghi, sembra aumenti di pari passo la produttività, un concetto che mi trova completamente d’accordo.

Non voglio mettere in dubbio la bontà delle intenzioni, concedetemi però quantomeno il legittimo sospetto che si unisca l’utile al dilettevole, ovvero che questi dati oltre ad “analizzare” i comportamenti, vengano utilizzati per il solito vecchio metodo della sorveglianza su ciò che fanno i dipendenti; cosa questa che va a braccetto con il diktat della Mayer “o rientri in ufficio rinunciando al telelavoro o sei licenziato”.

Sono convinto che la tecnologia oggi offra tanti strumenti in grado da soli di aumentare la produttività, non ultimi gli smartphone ed i tablet con cui oggi siamo praticamente connessi 24h su 24h; usare la tecnologia a fini di controllo non penso sia la cosa migliore per aumentare la produttività al contrario sono fermamente convinto che un dipendente controllato renda molto ma molto meno di uno lasciato libero di operare (chiaramente entro determinati confini).

Il concetto da cui le imprese dovrebbero partire è quello degli obiettivi, se ad inizio anno definiamo e condividiamo con ogni nostro dipendente un obiettivo che lo stesso deve raggiungere, poco importa il modo in cui opererà (chiaramente all’interno della regolarità) l’importante è che alla fine l’obiettivo sia raggiunto.

In Italia sappiamo tutti che per gli imprenditori, specialmente delle PMI, più il dipendente rimane in ufficio più va premiato perchè è uno che lavora molto. Credetemi, ho letto lettere di impegno all’assunzione scritte da imprenditori che riportavano le seguenti parole “l’orario di lavoro è della 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.00 chiaramente alle 18.00 non deve caderti la penna dalle mani“; quante volte ho sentito dire “Giovanni si che ci tiene all’azienda, non va a casa prima delle 20.00 ogni giorno, non come Mario che alle 18.00 se ne va via“.

Ma siete davvero convinti che chi rimane sino ad ora tarda in azienda sia migliore rispetto a chi fa l’orario canonico ed una volta terminato se ne va a casa?

Vi siete mai domandati come mai una persona rimane sino alle 20.00 tutti i giorni in ufficio mentre altri se ne vanno a casa o a fare altro terminato l’orario di lavoro?

Siete certi che chi rimane con costanza in ufficio sino ad ora tarda non nasconda in realtà problemi personali a cui rifugge rimanendo chiuso nelle pareti rassicuranti del suo ufficio, mentre chi esce sia una persona serena che vive pienamente la sua vita?

Dare disponibilità per riunioni o rimanere per completare attività importanti oltre l’orario di lavoro è normale e doveroso, credo sia capitato a tutti, ma farla diventare una regola personalmente ritengo nasconda altri problemi.

Con questo non voglio dire che sul posto di lavoro si trovano tutti santi, sappiamo che anche in questo caso è vero il contrario, alla base di tutto rimane il senso di responsabilità delle persone, gli obiettivi chiari prefissati e condivisi e la capacità di saper selezionare i propri collaboratori. Ho sentito recentemente Arrigo Sacchi ad un convegno che alla domanda “Mister come faceva le sue campagne acquisti?” ha risposto “Selezionavo i giocatori che erano più funzionali al mio progetto“; spesso nelle PMI le selezioni sono curate direttamente dagli imprenditori ma non sempre seguono la massima di Sacchi.

Senso della responsabilità dunque, obiettivi chiari e condivisi, risorse giuste al posto giusto sono secondo me gli ingredienti principali per far si che l’impresa ottenga risultati, una volta scelti i collaboratori la tecnologia può senza dubbio essere di supporto all’azienda per incrementare la produttività degli stessi, non usata in termini di controllo ma per migliorare l’attività lavorativa.

Tornare all’antico, come nelle vecchie fabbriche di inizio 900, non serve a nulla, sorvegliare significa non fidarsi, se manca la fiducia nessun rapporto di lavoro funzionerà mai.

Alla prossima!!

Business is business… ma la professionalità non si inventa.

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Una scelta consapevole
Una scelta consapevole

Mio malgrado, devo tornare su un argomento che ho già trattato in questo blog: la scelta della società di outplacement a cui affidarsi per un percorso di ricollocamento professionale. Devo tornarci perchè nelle ultime settimane si stanno moltiplicando le persone che si trovano nella necessità di utilizzare un percorso di ricollocamento messo a disposizione dall’azienda e che si ritrovano ad essere gestiti da società che sono alle prime armi o, in alcuni casi, che non hanno mai svolto percorsi di ricollocamento. Lo dico a ragion veduta perchè negli ultimi giorni, appunto, sono sempre più le persone che mi contattano via Linkedin, via posta elettronica o di persona e mi chiedono spiegazioni su come funziona il servizio perchè quello di cui stanno usufruendo sembra essere tutto tranne che outplacement.

Chi segue questo blog da tempo sa bene che a luglio 2012 affrontai l’argomento con un post in cui spiegavo passo passo, come fare per fare una scelta consapevole della società di ricollocamento professionale più adatta alla proprie esigenze e che potesse fornire garanzia del proprio operato (vedi post Outplacement: diffidare delle imitazioni). Da allora la situazione anziché migliorare sta peggiorando a vista d’occhio, per diversi motivi che cercherò di spiegarvi cercando di essere chiaro, fornendovi un approfondimento sul percorso migliore da seguire per selezionare la società di outplacement più.

1) L’Albo informatico delle agenzie accreditate al Ministero del Lavoro: a luglio dissi che il primo step da seguire per sapere se la società che ci è stata indicata o che ci ha contattato fosse accreditata, era quello di verificarlo nell’albo elettronico del Ministero del Lavoro. Confermo quanto riferito ma aggiungo una ulteriore selezione, l’albo citato ha 5 sezioni e gli accreditamenti sono a cascata ovvero chi è accreditato per la sezione 1 – Somministrazione di lavoro di tipo generalista in automatico ha l’accreditamento anche per le altre quattro sezioni (2 – Somministrazione di lavoro di tipo specialista, 3 – Intermediazione, 4 – ricerca e selezione del personale, 5 – Supporto alla ricollocazione professionale) con il risultato che basta che una società sia accreditata come società di somministrazione che in automatico può svolgere tutte le altre attività ivi compreso il supporto alla ricollocazione professionale (outplacement).

Ora come tutti potete ben immaginare, con la crisi economica in cui ci troviamo, il servizio di ricollocazione negli ultimi tempi sta sempre più prendendo piede, sia perché la riforma Fornero lo ha in parte portato alla ribalta inserendolo tra gli strumenti da utilizzare nella procedura di licenziamento e come politica attiva del lavoro, sia perché le aziende, cercando sempre più di aiutare i propri ex dipendenti colpiti dai tagli al personale a trovare un nuovo lavoro, tendono sempre più a proporre l’uso dell’outplacement.

Al tempo stesso l’uso della somministrazione è crollato per ovvi motivi, con la conseguenza che le Agenzie per il Lavoro catalogate al punto 1, che avevano sempre fatto del lavoro interinale il loro core business, oggi vedono i loro introiti drasticamente crollati. Nell’ottica di recuperare parte delle perdite, tutte le agenzie hanno deciso di voltare il loro sguardo su business che fino a ieri, molte di esse, non avevano neanche mai calcolato, l’outplacement appunto, forti del fatto che, per il gioco delle autorizzazioni a cascata, le stesse possono anche fornire supporto alla ricollocazione. Sulla carta però, perché all’atto pratico non avendolo mai fatto potete immaginare come si propongono sul mercato: programmi bislacchi, tempistiche assurde, assoluta mancanza di professionalità il tutto a danno degli ignari utenti (i lavoratori licenziati) che non si capacitano di come possa essere così scarso il servizio.

Non possiamo fare di tutta un’erba un fascio, le agenzie per il lavoro più grandi e strutturate da sempre hanno creato o spesso hanno acquisito, società che si occupano solo di ricollocazione (catalogate al famoso punto 5 dell’albo), le altre invece per mere esigenze di business hanno iniziato a percorrere una strada nuova, regolare sia chiaro in base alla classificazione di cui sopra, solo da pochissimo tempo con i risultati che potete ben immaginare.

2) AISO Associazione Italiana Società di Outplacement: di conseguenza con quanto riportato sopra, mi sento di voler raccomandare a chi deve scegliere una società a cui affidarsi in un percorso di ricollocazione, di guardare inizialmente direttamente al punto 5 dell’albo informatico del Ministero del Lavoro, perché in esso sono contenute le sole società che fanno della ricollocazione professionale il loro mestiere da sempre. Ma questo non è sufficiente perchè potrebbero trovarsi all’interno società meramente locali e quindi con poca conoscenza globale del mercato del lavoro; il secondo step che suggerisco è quindi quello di andare a vedere le società iscritte all’AISO l’associazione che racchiude in se tutte le maggiori società di outplacement che fanno questo mestiere da sempre e che hanno un grado di specializzazione elevato con personale specializzato.

3) Sito web delle società iscritte all’AISO: ulteriore passaggio per avere una idea ancora più precisa circa le società iscritte in AISO è quella di andare sul loro sito web cercando di ampliarne la conoscenza.

4) Colloquio preliminare: ultimissimo step, una volta che avrete selezionato la società, è quella di chiedere un colloquio preliminare con uno dei consulenti della stessa, un colloquio che non costa nulla e che non è impegnativo per nessuno ma che serve a chiarire dubbi, avere un quadro migliore della società e della professionalità dei suoi collaboratori a cui dovrete affidare il vostro percorso di ricollocamento. Se non siete soddisfatti di quanto presentato potrete sempre rivolgervi ad un’altra società.

Siete voi i protagonisti del vostro futuro per tale motivo è assolutamente necessario che siate in grado di fare una scelta consapevole della società che dovrà supportarvi nel processo di ricollocamento, essendo in possesso di tutte le informazioni necessarie per farla, perchè è pur vero che business is business, ma la professionalità non si inventa.

Alla prossima!!

A pensare male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca…

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Il Ministro Elsa Fornero
Il Ministro Elsa Fornero

Sette mesi fa entrava in vigore la Riforma Fornero e chi tra voi, mi seguiva già allora sa bene che non ho mai avuto sentori particolarmente positivi nei confronti della stessa; ero e continuo ad essere certo che il progetto iniziale fosse un nobile progetto (l’idea Ichino a mio parere continua ad essere quella più valida) ma il passaggio che c’è poi stato di mano in mano: parti sociali, confindustria, politica ecc. non ha certo giovato, al contrario ha prodotto l’obrobrio che ci ritroviamo oggi.

Dopo sette mesi, dicevo, possiamo tranquillamente dire che sotto moltissimi aspetti la Riforma del Mercato del Lavoro si è dimostrata un vero e proprio fallimento. Panorama la scorsa settimana pubblicava un articolo enunciando i perché, secondo il giornalista (Marco Cobianchi), di quello che il settimanale senza mezzi termini chiama un vero flop; personalmente pur concordando sull’idea del fallimento di buona parte della riforma, non mi trovo assolutamente concorde con la stragrande maggioranza delle opinioni di Cobianchi.

Non voglio approfondire le argomentazioni di Panorama, chi fosse interessato a leggerle può scaricare l’articolo cliccando questo link ( Cobianco FLOP Fornero ), al contrario voglio dire i miei perché la riforma non funziona.

Per prima cosa occorre dire che c’è un errore di fondo, una riforma come questa che ripeto è un moncone della proposta Ichino, in cui, anche giustamente, si è tentato di spingere le imprese a stabilizzare i lavoratori precari eliminando l’abuso di forme contrattuali flessibili, non può e non doveva essere fatta in un momento storico come questo.

La recessione che attanaglia l’Italia sta mettendo in enorme difficoltà, per non dire peggio, le imprese italiane che proprio in un momento come questo, necessitano di flessibilità, visto che parlare di previsioni a lungo termine è un puro esercizio di stile. La Riforma tra aumenti di costi dei contratti flessibili, la restrizione sulle partite iva e sui contratti a progetto anziché incentivare le assunzioni a tempo indeterminato le ha drasticamente bloccate tout court. Ne sanno qualcosa i lavoratori dell’editoria e del no profit ad esempio, mondi in cui le collaborazioni sono all’ordine del giorno, che si sono visti scaricati improvvisamente per strada perché le aziende hanno avuto paura di poter incorrere in trasformazioni di default in tempi indeterminati, con il risultato che se prima lavoravano con contratti a collaborazione o p.iva mono committente, oggi non lavorano affatto; ma lo stesso vale per altri settori anche quello industriale vero e proprio.

Attenzione non sto giustificando il precariato, sto solo dicendo che in questo momento credo sia meglio essere precari che non lavorare affatto, rinviando le riforme a momenti di congiuntura favorevole e con tutti i sacri crismi, non monche come questa.

In merito alla flessibilità in uscita personalmente non ritengo sia ancora possibile dare un giudizio, sulla carta le regole sembrano abbastanza chiare anche se molti avvocati, forse perché vedono minati i loro interessi, tendono a dire ai propri assistiti, in particolare chi si trova dalla parte dei lavoratori, che nulla è cambiato e che di conseguenza, non raggiungendo l’accordo in fase preliminare davanti alla DTL (Direzione Territoriale del Lavoro) e procedendo con una causa, il reintrego è assicurato… personalmente non ne sono così convinto, al contrario, a meno che il licenziamento sia palesemente insussistente, ritengo che far saltare la mediazione non sia una cosa positiva per il lavoratore che al massimo si vedrà riconosciuta una indennità tra le 12 e le 24 mensilità, rischiando di giocarsi parte di questa indennità nei compensi del legale che lo ha seguito nella causa di lavoro.

In conclusione tornando all’articolo di Panorama, Cobianchi chiude dicendo “.. le prime sentenze sulle controversie sono contraddittorie. Per questo gli imprenditori sono terrorizzati. E per questo non assumono”; no Cobianchi le imprese non assumo non perchè sono terrorizzati dalle sentenze sul possibile reintegro dei lavoratori, in quel caso semmai non licenziano, le aziende non assumono perché la crisi richiede capacità di adattarsi in fretta alle mutevoli condizioni del mercato, cosa che non può essere fatta se tenti di ingessare il mercato del lavoro.

Alla prossima!!