Mese: gennaio 2014

Allenatore Leader – Leader Allenatore

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Conte, senza dubbio un leader
Conte, senza dubbio un leader

Nel coaching sportivo così come in quello aziendale, vengo spesso interpellato da società ed aziende che sentono la necessità di inserire nel loro staff un coach che alleni la mente in modo specifico.

Chiaramente il primo contatto in tal senso è senza dubbio oltre che la dirigenza anche l’head coach altrimenti definito capo allenatore, colui che ha in mano le redini della squadra e che gestisce in primis il rapporto con i giocatori. Spesso ho parlato di team building, di team coaching ma raramente ho toccato la figura di chi è chiamato a gestire la squadra; l’allenatore ed il suo staff sono fondamentali per il successo o meno del team.

Talvolta accade che l’allenatore sia l’ultimo a volersi mettere in discussione, ti indica magari quello e quell’altro giocatore che secondo lui ha bisogno di supporto ma difficilmente mette sul piatto la possibilità che se un giocatore o la squadra non performa come dovrebbe, la colpa potrebbe anche essere del suo modo di gestire. Mi piace ricordare quello che dice Dan Peterson, uno tra i più grandi allenatori di basket in Italia “esistono i coach sarti ed i coach stilisti: i primi creano il gioco sulla base dei giocatori che hanno a disposizione, i secondi costruiscono la squadra sulla base di quello che è il tipo di gioco in cui credono” ecco personalmente ritengo che un allenatore debba essere sempre un sarto ed adattare giochi e metodi di allenamento a seconda degli individui che compongono il team, sono pochi quelli che possono concedersi di essere stilisti (nel calcio ad esempio Arrigo Sacchi è sicuramente uno stilista), normalmente sono quelli con grande esperienza e che vengono ingaggiati dalle società di rilievo che possono permettersi di prendere qualsiasi giocatore sia necessario al modulo dell’allenatore.

Per essere un leader vero all’allenatore non basta solo avere le skills tecniche occorre anche dell’altro; da dove nasce la leadership dell’allenatore? Nella mia opinione ci sono dei pilastri fondamentali:

1) Quando si forma una squadra, i giocatori che arrivano per quanto capaci se non addirittura campioni, messi insieme non sono ancora team ma un gruppo di individui, non è detto che lo diventino; questo il motivo di molti fallimenti di squadre che sulla carta dovevano dominare ed in realtà sono naufragate; occorre quindi lavorare nella direzione di costruire subito un clima di fiducia e rispetto reciproco.

2) Usare subito il plurale anzichè il singolare quindi: “nostra” squadra anzichè “mia” squadra, “noi” anzichè “io”, la leadership è plurale non singolare .

3) Coinvolgimento massimo di tutti dal primo all’ultimo, nelle riunioni mai fare monologhi, parlare e cofrontarsi con tutti nello staff, con la dirigenza, persino con il magazziniere, far sentire tutti importanti.

4) Stabilire poche regole e chiare, condivise da tutti.

5) Dedicare tempo a tutti i membri del team, non solo durante l’allenamento ma anche a lato dello stesso, coinvolgendoli e facendoli sentire parte importante, in poche parole prendersi cura di loro, quello che gli americani chiamano “care“.

6) Domandare!!! Nei dialoghi siano essi singoli con i giocatori o collettivi con tutta la squadra, domandate, fate parlare i membri del team, fare sermoni senza possibilità di replica non porta da nessuna parte, alla fine entrano da un orecchio ed escono dall’altro, totalmente inefficaci.

7) Mai e poi mai sottolineare il negativo e dare il positivo come scontato, può sembrare una banalità ma vi assicuro che ci sono molti allenatori che sono pronti a farsi sentire quando ci sono cose negative ma che si dimenticano di sottolineare i progressi e le cose fatte bene da parte del team. Riconoscete e premiate quando è stato fatto un buon lavoro.

Questi sono le mie personali basi, a cui segue molto altro chiaramente; ho parlato dal lato sportivo, non ci vuole molto a capire che le stesse regole valgono per la gestione di qualsiasi gruppo.

Alla prossima!!

Sai che c’è? C’è che mi regalo un’azienda!

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Giovani Imprenditori
Giovani Imprenditori

Venerdì scorso sul Corriere della Sera mi sono imbattuto in uno dei soliti articoli interessanti di Dario Di Vico dal titolo “Se un giovane su quattro decide di assumersi da solo“, mi è subito venuta l’ispirazione per scrivere questo post il cui titolo è emblematico. L’articolo tratta un argomento come quello di fare impresa che sta muovendo molti giovani ad autimpiegarsi per far fronte al precariato ed alla disoccupazione che come sappiamo, tocca i suoi massimi proprio tra i ragazzi.

Mi ha fatto particolarmente piacere leggere l’articolo perchè è la dimostrazione di quello che (chi mi segue lo sa) dico da un pò, ovvero che i giovani oggi altro che bamboccioni, sono forse gli unici che hanno capito realmente che è in atto un cambiamento sostanziale della nostra economia e del modo di intendere il lavoro, si stanno attrezzando e sono pronti a mettersi in gioco in prima persona, ben sapendo che nulla sarà più come prima e che attendere che qualcosa cambi da sola non porterà da nessuna parte. In questo senso la frase di Di Vico è emblematica “Sono ragazzi che hanno perso le aspettative di un tempo e hanno maturato una consapevolezza diversa. … riconoscono che la meritorcrazia si sposa meglio con una propria iniziativa piuttosto che con una scrivania in un ufficio pubblico.”

Sarebbe sbagliato però pensare che i giovani avviano proprie attività solo perchè non hanno possibilità di trovare sbocchi alternativi come lavoratori dipendenti (il 36,4% ha messo questa come giustificazione – Centro Studi Unioncamere), la maggior parte di essi si muove in tal senso perchè ha un fortissimo desiderio di autorealizzazione (ben il 47,1% – Centro Studi Unioncamere) e questo significa maggiore autoconsapevolezza e, parimenti, che le aziende siano esse multinazionali o pmi non fungono più da potente richiamo per le nuove professionalità.

Perchè avviene questo? Sicuramente perchè, come dicevo prima, i ragazzi hanno voglia di fare, hanno voglia di mettersi in gioco, di essere positivi anche in condizioni difficili, in questo senso l’autoimpiego è sicuramente una scarica di adrenalina che li percorre e che gli permette di guardare al mondo con fiducia. L’altro aspetto costituisce l’ennesimo campanello di allarme per le aziende: l’aver tirato troppo la corda in questi anni, in alcuni casi anche aprofittando della situazione, con stage, contro stage, apprendistati e tempi determinati ha convinto i giovani a dire “se proprio devo rischiare rischio di mio, almeno se le cose vanno bene raccoglierò interamente i frutti“, inoltre il senso di soddisfazione che si prova a fare qualcosa di nostro non ha paragoni.

Sempre dall’articolo emergono anche altre caratteristiche positive di questa scelta di vita, i nostri ragazzi hanno una forte propensione alla mobilità territoriale, altro cambiamento epocale rispetto alle generazioni precedenti, i dati riportano che ben il 50% degli intervistati è pronto a muoversi anche all’estero e che solo il 20% non ha intenzione di lasciare il terriotrio di origine.

Questo segnale lanciato dai giovani credo debba essere colto da tutti, dalle imprese “old style” per capire che è ora di darsi una sveglia e di cambiare veramente le cose, dalle generazioni come la mia per capire che a volte, scegliere di mettersi in gioco può essere una via per rinvigorire la propria autostima e ritrovare la dignità perduta; dal governo e dalla politica in genere per capire che è giunta l’ora di snellire le procedure, favorire l’imprenditorialità anche attraverso tassazioni agevolate e sostegno alle start-up.

Alla prossima!!

Followership, ovvero dove nasce la Leadership

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followership
I bravi follower? I leader di domani

In questi giorni di vacanze natalizie mi sto dedicando alla lettura del libro scritto da Dan Peterson e Dino Ruta dal titolo “Per me… numero 1” (edizioni Egea), un vero e proprio trattato sulla leadership che prende spunto dalla narrazione della vita di “Coach” Dan Peterson, sicuramente il più grande allenatore americano di basket in Italia.

Mi ha colpito in modo particolare quando Ruta, narrando uno dei primi periodi di vita lavorativa di Coach Peterson negli Stati Uniti, parla di “Followership“, un concetto che in realtà riporta all’omonimo libro di Barbara Kellerman professore in business administration all’università di Harvard.

Suona strano parlare di “follower” quando in realtà libri e corsi formativi ci bombardano con il concetto di “leader“, eppure leggendo il passaggio sono arrivato alla conclusione che per essere un buon leader occorre prima di tutto imparare ad essere un buon follower, ma cosa significa essere un follower?

Tutti noi abbiamo riportato o tuttora riportiamo ad un capo sia esso l’imprenditore, il direttore, il responsabile ecc.; la prima cosa da fare in questi casi è quella di riuscire ad entrare in sintonia con il nostro referente, ovvero sviluppare la capacità di ascolto, capire su cosa dobbiamo concentrarci e cosa invece va messo in secondo piano (definire le priorità), essere sempre disposti ad imparare da chiunque, essere in grado di poter esprimere la propria opinione anche quando essa differisce da quella del capo. Questo significa non essere degli “yes man” al contrario significa essere assertivi, dote non semplice da sviluppare e molto rischiosa da usare perchè un cattivo leader potrebbe non capire.

Vero comunque che come ci sono cattivi leader esistono altrettanto cattivi follower, in questo senso è emblematica la classificazione della Dott.ssa Kellerman che nel suo libro ha suddiviso quest’ultimi in: isolati ovvero coloro che accettano supinamente qualsiasi cosa senza il minimo coinvolgimento (ne troviamo diversi in azienda), spettatori quelli che vorrebbero ma non osano lasciando agli altri il compito di dire la loro (ne siamo pieni, i famosi quaquaraquà), partecipanti sono un valido supporto ma nulla più, attivisti coloro che come dice la parola sono sempre pronti ad essere di supporto al leader (attenzione qui si annidano gli yes man, inutili per definizione ma che tanto piacciono ai vari leader ed i paragnosti ovvero quelli che pensano di fare le scarpe al leader stesso) ed i combattenti, merce molto rara perchè sono attaccatissimi all’azienda che si spendono in prima persona con il rischio di essere incompresi e rimetterci se il leader non è capace; già… occorre essere dei bravi leader per essere in grado di valorizzare i follower meritevoli e non affossarli, in fondo il risultato del leader dipende molto anche dal tipo di follower che si ritrova.

In fondo non si è leader solo perchè siamo stati incaricati da qualcuno di esserlo, leader fa rima con autorevolezza non con autorità (concetto che ho espresso più volte), eppure sono ancora innumerevoli i leader che basano la loro gestione sul concetto di autorità e potere risultando ciechi al fatto che dietro di loro non c’è più nessuno e magari si lamentano del fatto che sono contornati di incompetenti, è necessario invece comprendere che un buon leader persuade le altre persone delle bontà delle sue idee in modo che questi ultimi siano disposti a dare il 101% anziché pretendere che lo facciano di default, ecco quindi perchè se si è stati dei buoni follower è molto probabile che saremo anche degli ottimi leader.

Alla prossima!!