Coaching

E se facessimo una cosa alla volta?

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Buone vacanze!!
Buone vacanze!!

Siamo in piena generazione 2.0, non passa giorno che la tecnologia non ci presenta una novità che ci permette di essere ancora più connessi, in modo sempre più rapido, con possibilità infinite di cose da poter fare con un unico strumento. Premetto che sono un autentico appassionato della tecnologia e che se il pc o la rete si inchiodano o ci mettono qualche centesimo di secondo in più per fare una operazione, sono il primo ad arrabbiarmi, per non parlare di come mi incavolo quando attraversando una galleria la comunicazione cade (a proposito: cari Signori delle telecomunicazioni e della Società Autostrade vi pare normale che nel 2014 non avete ancora pensato di cablare le gallerie?).

Detto questo però non dobbiamo confondere multitasking con confusione e pensare che più cose facciamo in contemporanea, migliori saranno i risultati che otterremo. L’esempio è presto fatto, mettere sul fuoco tanta carne in contemporanea in una sorta di mega grigliatona non ci da la sicurezza che mangeremo tutti pietanze cotte a puntino, anzi è facile che nella fretta di dover controllare quella bistecca all’estrema destra, la salsiccia all’estrema sinistra tenderà a bruciarsi senza che riusciamo ad accorgerci.

Lo stesso nel lavoro di tutti i giorni, iniziare innumerevoli progetti contemporaneamente è la miglior garanzia per vederli naufragare quasi tutti: tablet, pc, smart phone sono tutti strumenti eccezionali che ci consentono, questo si, di essere connessi anche a chilometri di distanza, in condizioni disparate e di poter raggiungere l’obiettivo prima del previsto, guai però pensare che possono permetterci di fare nella stessa quantità di tempo, dieci progetti di fila. Lo stress elevato, l’insonnia, l’incapacità di vivere relazioni “reali” rifugiandosi solo nel virtuale, l’altissimo rischio di essere fraintesi (nei social network è all’ordine del giorno) sono solo alcune delle problematiche diventate di pubblico dominio nella società moderna.

Ritroviamo allora la capacità di programmare, non immaginate quanti manager anche famosi, non sono in grado di gestire un’agenda e di come facciano saltare appuntamenti presi da tempo solo perchè nell’essere multitasking, si sono dimenticati di avere l’agenda piena ed hanno continuato ad accavallare gli uni sugli altri (questo nonostante agende cartacee, agende digitali, allarmi e quant’altro); impariamo a delegare, soprattutto se siete capi, non potete pensare di fare tutto voi e di avere sempre l’ultima parola su tutto, questo servirà anche a responsabilizzare e motivare i vostri collaboratori. Questo vale tanto nel lavoro quanto nella vita privata; torniamo a concentrarci su una cosa per volta e ad utilizzare la tecnologia per arrivare prima all’obiettivo, non per creare ulteriore confusione, in poche parole torniamo a privilegiare la qualità alla quantità.

Un post che mi è venuto di getto, sarà perchè è l’ultimo prima delle ferie e la vacanza è sempre un momento per riappropriarci delle nostre vite, per programmare il futuro, per goderci un pò di sano riposo, magari in spiaggia o in montagna con un buon libro cartaceo da sfogliare e con la famiglia da gustare.

Ci rivediamo a settembre!! Buone vacanze!!

La forza di chiedere “scusa”

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Sul Corriere della Sera di sabato 19 luglio sono stato subito attratto dall’articolo di Costanza Rizzacasa d’Orsogna dal titolo “Sorry non vuole più dire mi dispiace” in cui prendendo spunto dal video della pubblicità Pantene (che trovate ad inizio del post), ci spiega come nella maggioranza delle culture occidentali la parola “scusa” sembra essere ormai passata di moda.

Certo, dire scusa in modo del tutto gratuito o per semplice convenzione non ha certo alcun valore ed è tanto inutile quanto non dirlo affatto; cosa diversa riuscire a chiedere scusa per ammettere i propri errori. Il video di Pantene dal titolo “Not Sorry” mette in evidenza proprio il primo lato dello chiedere scusa, quello convenzionale che in realtà significa proprio il contrario ovvero per la serie “scusa eh!! Ma esisto anche io”, inutile quindi dirlo meglio non dirlo proprio e reagire come giustamente fanno le donne nello spot, ovvero manifestando assertività quindi ribattendo alla “scortesia” con determinazione, senza però essere mai sopra le righe.

Avere la forza di chiedere “scusa” per i propri errori, tanto per intenderci quello che nell’articolo la Rizzacasa d’Orsogna lega alle parole della famosissima canzone di Elton Jhon “Sorry seams to be the hardest word”, sembra veramente essere diventata una chimera. La società occidentale oggi è sempre più basata sull’individualismo, sul carrierismo spinto, sul tenere sempre i toni alti per qualsiasi cosa: risse che sfociano in omicidi e che prendono il via da banalità, una precedenza non data, uno scontro fortuito mentre si cammina, ragazze che si picchiano tra loro per dimostrare chi è la più forte, ragazzi che rischiano la vita o si rovinano la fedina penale per fare bravate e dimostrare di poter essere accettati dal gruppo… insomma oggi la violenza, l’alzare la voce, la maleducazione ed il dover sempre dimostrare in modo sbagliato di avere “le palle”, passatemi il francesismo, è diventata la base della nostra società.

Abbiamo completamente perso il senso di solidarietà nei confronti di una sempre più accentuata competitività, ci stiamo isolando sempre di più e parallelamente aumentano i disagi mentali che questo stato comporta. In questo contesto ripartire dal saper chiedere scusa per gli errori commessi, non è mai un segno di debolezza anzi è una virtù che aumenta la nostra forza come persone, non è un caso che nella cultura giapponese chiedere scusa è considerato, appunto, una virtù e dimostra che una persona ù in grado di assumersi le sue responsabilità senza ribaltarle su altri.

In questo contesto non posso non citare lo psicologo Daniel Goleman che sul famosissimo testo Intelligenza Emotiva dice testualmente: “…se cercheremo di aumentare l’autoconsapevolezza, di controllare più efficacemente i nostri sentimenti negativi, di conservare il nostro ottimismo, di essere perseveranti nonostante le frustrazioni, di aumentare le nostra capacità di essere empatici e di curarci degli altri, di cooperare e di stabilire legami sociali, potremo sperare in un futuro più sereno.” Tornare ad avere la forza di chiedere scusa è sicuramente parte di questa ricerca di un nuovo futuro, più sereno e con maggiori possibilità di tornare a mettere al centro di tutto la persona e le sue emozioni positive.

In fondo, come dice Antoine de Saint-ExupéryNon si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Alla prossima!! 

Alla fine quello che conta siamo noi stessi

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Succede che quando pensi di avere tutto sotto controllo, inevitabilmente ti imbatti in quell’imprevisto che rimette tutto in discussione.

Le sicurezze vacillano, cerchi di capire perché sta succedendo…. ragioni, ragioni, ragioni ma non trovi risposte; ripercorri tutta la strada e fatichi a trovare un errore, un dubbio, una incertezza che può aver scatenato quell’imprevisto, creato quell’ostacolo, eppure è accaduto…. e ora sei li, immobile quasi impietrito che non sai cosa fare.

Sei davanti ad un bivio, continuare e far finta di nulla, vivere alla giornata, non programmare il futuro, certo che sia meglio affrontare le difficoltà quando si presentano piuttosto che stabilire obiettivi per il futuro, con il rischio che la vicenda si ripeta di li a poco, con sensazioni sempre più devastanti a livello psicologico oppure rimetterti in discussione, capire cosa è successo, dove hai sbagliato e scegliere la strada della responsabilità, della disponibilità al cambiamento, quello vero, non quello sulla carta o quello che consigliamo agli altri ma che difficilmente poi applichiamo a noi stessi.

Vivere il qui ed ora certamente, puntando però al futuro, stabilendo nuovi obiettivi e tracciando la strada e le tappe intermedie per arrivare alla meta; perché alla fine quello che conta siamo noi stessi ed il senso di responsabilità che mettiamo in tutto quello che facciamo.

Facile? No! Sicuramente non è semplice, ma tutto è nelle nostre mani, non possiamo delegare ad altri quelle scelte che riguardano noi è solo noi, troppo facile scaricare le colpe su altri, sentirsi i calimeri piccoli e neri colpiti dalla sfortuna; più difficile aumentare la propria consapevolezza e assumersi le responsabilità, ma è da qui che tutto ha inizio.

Alla prossima!

Demons degli Image Dragons (canzone del video)

Quando i giorni sono freddi
E le carte sono piegate
E i santi che vediamo
Sono tutti fatti d’oro

Quando tutti i tuoi sogni falliscono
e le persone che salutiamo
sono le peggiori fra tutti
e scorre vecchio sangue

Voglio nascondere la verità
Voglio proteggerti
Ma con la bestia dentro me
Non c’è posto per nascondersi

 

Non importa quale sia la nostra razza
Siamo ancora fatti d’invidia
Questo è il mio regno che arriva
Questo è il mio regno che arriva

Quando senti il mio calore
Guarda nei miei occhi
È dove i miei demoni si nascondono
È dove i miei demoni si nascondono
Non avvicinarti troppo
Dentro di me c’è il buio
È dove i miei demoni si nascondono
È dove i miei demoni si nascondono

Quando il calo del sipario
È l’ultima cosa
Quando la luce si spegne
Tutti i peccatori strisciano

E così scavano la tua fossa
E la tua finzione arriva chiamandoti
per il casino che hai fatto

Non voglio abbatterti
Ma sono legato all’inferno
Nonostante tutto questo sia per te
Non voglio nasconderti la verità

Non importa quale sia la nostra razza
Siamo ancora fatti d’invidia
Questo è il mio regno che arriva
Questo è il mio regno che arriva

 

Quando senti il mio calore
Guarda nei miei occhi
È dove i miei demoni si nascondono
È dove i miei demoni si nascondono
Non avvicinarti troppo
Dentro di me c’è il buio
È dove i miei demoni si nascondono
È dove i miei demoni si nascondono

Dicono sia ciò che fai
Io dico che dipende dal destino
È intrecciato con la mia anima
Ho bisogno di lasciarti andare

I tuoi occhi brillano così luminosi
Voglio salvare la loro luce
Non posso fuggire da tutto questo ora
A meno che non mi mostri come fare

Quando senti il mio calore
Guarda nei miei occhi
È dove i miei demoni si nascondono
È dove i miei demoni si nascondono
Non avvicinarti troppo
Dentro di me c’è il buio
È dove i miei demoni si nascondono
È dove i miei demoni si nascondono

 

LIFE SKILLS: un aiuto alla crescita di bambini ed adolescenti.

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Life Skills per i ragazzi
Life Skills per i ragazzi

Ho già toccato questo argomento più di un anno fa, lo toccai in modo marginale credo sia necessario tornarci sopra ed approfondire questo aspetto che ancora in pochi conoscono.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato, nella sua prima versione, nel lontano 1994 un documento dal titolo “Life Skills education for children and adoloscents in Schools” in cui si mette in evidenza come sia importante insegnare ai ragazzi queste abilità e capacità cognitive, emotive e sociali di base che l’OMS raccoglie in 10 competenze:

Consapevolezza di sé (Self-awareness)
Gestione delle emozioni (Coping with emotions)
Gestione dello stress (Coping with stress)
Empatia (Empathy)
Pensiero Creativo (Creative Thinking)
Pensiero Critico (Critical Thinking)
Prendere buone decisioni (Decision making)
Risolvere problemi (Problem solving)
Comunicazione efficace (Effective communication)
Relazioni efficaci (Interpersonal relationship skills)

Ma a cosa servono queste competenze? L’OMS testualmente riporta “sono le competenze che portano a comportamenti positivi e di adattamento che rendono l’individuo capace di far fronte efficacemente alle richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni“.

In Italia sempre più soggetti istituzionali (scuole, istituti), associazioni, società sportive ecc. si stanno sensibilizzando al tema visto anche quello che le cronache quotidianamente ci raccontano; il target dei ragazzi da prendere in considerazione è quello che va dai 6 ai 16 anni di età, ovvero tutta quella fascia di popolazione che rientra nella fase pre-adolescenziale e adolescenziale vera e propria. Sappiamo bene come i ragazzi in questa età, vivano momenti di crescita che, se mal gestiti, possono segnarli negativamente per tutta la vita fino a portarli anche a pesanti disagi mentali.

Lo sviluppo delle Life Skills permette agli individui di tramutare la conoscenza, attitudini e valori in abilità, ovvero di sapere cosa fare e come farlo quando si presenta la situazione, capire quindi come reagire quando ci si trova davanti ad atti di bullismo, prevenire situazioni di pericolo come uso di droghe e abuso di alcool, saper gestire situazioni in cui può venire minata la propria autostima.

Per lo sviluppo di queste capacità normalmente si lavora in gruppi o a coppie, facendo brainstorming, giochi di ruolo o dibattiti a seconda dell’età a cui ci si rivolge; anche nell’ambito sportivo è importante prestare cura a queste competenze, lo sport è già di per se una scuola di vita ma può aumentare il suo lato educativo proprio prendendosi cura di sviluppare almeno alcune di queste competenze: in particolare aumentare la consapevolezza di se, l’empatia intesa come capacità di relazionarsi al meglio con i compagni di squadra, riuscire a gestire al meglio le emozioni e lo stress che può venire da una partita importante, essere capaci di prendere decisioni giuste al momento giusto sono tutte componenti che sono insite nello sport.

Nonostante tutto occorre fare ancora passi da gigante, specialmente sul lato scolastico, se da un lato è pur vero che le scuole stanno passando un momento sicuramente negativo sul lato fondi, il MIUR (Ministero dell’Istruzione) non può esimersi dal prendere in considerazione che creare progetti specifici per i ragazzi, possa aiutarli a superare momenti difficil; in parte lo sta già facendo (la regione Toscana mi sembra particolarmente attiva in tal senso) ma ancora tanto c’è da fare.

Alla prossima!!

 

Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?

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Siamo da anni nel mezzo di una crisi economica globale che ha bruciato ricchezza e posti di lavoro alla velocità della luce; la maggior parte della popolazione mondiale è stordita come un pugile che si trova a doversi difendere da una scarica infinita di pugni del suo avversario che lo ha relegato alle corde. Uno stordimento da cui si fa fatica ad uscire, in Italia in particolare, anni di vacche grasse hanno portato intere generazioni a perdere completamente di vista la sostenibilità del loro futuro, si pensa che le risorse siano infinite e complice anche una legislazione del lavoro ormai datata, si è contribuito a far credere che ciò che si è raggiunto nessuno lo può più togliere.

Eppure in mezzo a questo disatro, ci sono persone che continuano a guardare avanati, a vedere un futuro roseo, a scommettere su se stessi e sulle proprie capacità di uscire dal tunnel, anche a costo di rimettersi completamente in discussione. Perchè avviene questo? Sono dei pazzi visionari o alla base di questo loro ottimismo ci sono delle reali possibilità di riuscita per i loro progetti?

Su base storica è proprio in tempi difficili che le persone fanno più affidamento sull’ottimismo per migliorare la situzione; studi scientifici hanno dimostrato che essere ottimisti non solo ci permette di affrontare le difficoltà con uno spirito diverso, in alcuni casi l’ottimismo ci salva la vita. Persone colpite da tumori che hanno affrontato la malattia con positività sono poi effettivamente riuscite o a debellarla o nel peggiore dei casi hanno allungato di molto la loro vita, esattamente al contrario di chi vede subito nero e pensa che la vita stia volgendo al termine. Non solo, l’essere ottimisti circa il futuro ci fa essere più attenti ed evitare di correre rischi inutili (assenza di uso di alcool e droghe, maggiore prudenza alla guida, ecc.) proprio perchè sappiamo che domani ci aspettano cose belle a cui non possiamo rinunciare; al contrario, chi vede nero, spesso si lascia andare mettendo a repentaglio la propria esistenza.

Nel weekend ho visto il film “Ci vediamo domani” con Enrico Brignano, una commedia che fa riflettere e che consiglio a tutti di vedere per farsi quattro risate e per capire che vedere il bicchiere mezzo pieno è molto meglio che vedere sempre quello mezzo vuoto. Da questo film sono rimasto folgorato dal dialogo che ripropongo all’inizio del post in cui c’è una banalissima quanto efficace spiegazione di cosa significhi essere ottimista.

Una predizione influenza l’evento che predice, perchè il comportamento delle persone è determinato dalla loro percezione soggettiva della realtà, più che dalla realtà oggettiva; perciò credere in un esito positivo aumenterà la probabilità che l’esito desiderato si realizzi effettivamente. Spesso ho parlato su questo blog della teoria della “profezia che si autoadempie” (self-fulfilling prophecy del sociologo Robert Merton), di quanto spesso il pregiudizio rischi di influenzare in maniera definitiva le persone, la stessa teroria di cui ho parlato in negativo (il pregiudizio negativo porta effettivamente ad un probabile fallimento della persona a cui è applicato) vale in termini positivi. Sappiamo come un essere umano è profondamente influenzato dalle aspettative che vengono riposte su di lui; la positività nata interiormente o proveninete da una fonte esterna, consente alle persone di impegnarsi nel raggiungimento dei propri obiettivi e di raddoppiare le forze per arrivare; di conseguenza la probabilità che riuscirà a tagliare il traguardo prefisso aumenta in modo inesorabile.

Nel 1987 i Lakers squadra professionistica di basket americano, vinsero il campionato contro i Boston Celtics; l’allenatore di allora Pat Riley intervistato da un giornalista alla domanda se sarebbero stati o meno capaci di vincere nuovamente il titolo l’anno prossimo, senza alcun tentennamento rispose “lo garantisco”, tutti i cronisti spalancarono gli occhi e vollero sentirsi ripetere la farse, cosa che Riley fece senza indugio; ebbene l’anno successivo i Lakers vinsero nuovamente il titolo, faticando sino all’ultima gara, ma vinsero. I giocatori dissero senza mezzi termini che il fatto che il loro coach aveva dimostrato fiducia in loro tanto da sbilanciarsi in una previsione così netta, li aveva spinti a dare il 200% per dimostare che la previsione fatta sarebbe stata soddisfatta, e così avvenne. Un classico esempio di profezia che si autoadempie.

Essere ottimisti aiuta, sempre… molto meglio quindi vedere il bicchiere mezzo pieno, perchè in fondo l’impossibile non è altro che il possibile che non è acora avvenuto…

Alla prossima!!

 

Post ispirato dal libro OTTIMISTI DI NATURA di Tali Sharot

 

L’industria della fragilità e la ricerca della serietà

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Ma cos'è il Coaching?
Ma cos’è il Coaching?

Circa una settimana fa, Beppe Severgnini illustre giornalista del Corriere della Sera, scriveva un pezzo dal titolo “L’industria della fragilità” in cui evidenzia come, in un momento di crisi come quello attuale, l’unica industria che non va in crisi è quella dei furbi e degli approfittatori.

Nell’articolo Severgnini sottolinea come a tutti i livelli ed in tutti i settori, in momenti come quello attuale, la disperazione conduca le persone sul baratro e come quindi tendano ad aggrapparsi a qualsiasi cosa che prometta loro un barlume di speranza e di ripresa. Naturale che in un Paese di “furbetti del quartierino” come l’Italia, in queste pieghe che in alcuni casi sfiorano il dramma personale e familiare, si annidino quelli che io chiamo parassiti.

Perchè parassiti? In primis perchè la definizione che ne da la Treccani è di per se emblematica:

In biologia, ogni animale o vegetale il cui metabolismo dipende, per tutto o parte del ciclo vitale, da un altro organismo vivente, detto ospite, con il quale è associato più o meno intimamente, e sul quale ha effetti dannosi

in secondo luogo perchè proprio come questi organismi viventi sfruttano le fragilità altrui a proprio conto senza un minimo di rispetto per le persone e per i drammi che stanno vivendo.

Se ricordate qualche settimana fa, pur non sapendo dell’imminente uscita dell’articolo di Severgnini, ho messo in guardia proprio su questo blog, circa l’emergere negli ultimi tempi di società che avendo fiutato l’affare dell’outplacement si sono buttate sul mercato senza sapere neanche di cosa parlano, offrendo servizi che tutto sono fuorchè ricollocamento professionale, arrecando danno in prima battuta alle persone che decidono di affidarsi alle loro mani ed in secondo luogo screditando l’intera categoria.

Severgnini fa un quadro a tutto tondo, partendo da aziende che si approfittano della crisi per perpetrare nel tempo stage a costo zero o fornendo retribuzioni estremamente basse sfruttando il fatto che abbiamo un cuneo fiscale estremamente elevato (cosa vera e l’ho sempre detto, ma in certi casi c’è evidentemente chi si approfitta della situazione per pagare meno), passando per badanti pagate in nero e senza alcuna specializzazione che assistono anziani, arrivando persino alle banche che pur di ottimizzare chiudono sportelli lasciando i clienti in balia di comunicazioni che lui definisce “esoteriche” che non possono in alcun modo essere capite da persone anziane e forse anche da persone di mezza età.

In questo gridare giustamente contro chi si approfitta Severgnini tocca anche la professione del Coach, testualmente scrive “ci sono persone confuse, che si mettono nelle mani di un Life Coach improvvisato (due mesi prima era un animatore turistico)”. Ammetto di essermi messo a ridere appena ho letto la frase e devo ammettere che ha ragione da vendere, oggi la parola coaching va molto di moda per cui, complice il fatto che non esiste alcun albo professionale, chiunque si alza la mattina può vantare di essere coach di qualcosa.

Da Coach Professionista mi preme specificare in primis che il metodo del coaching esiste da ben prima della crisi economica, il fatto che oggi in molti si “inventino” coach di qualche cosa è dovuto sicuramente ad uno sviluppo della professione negli ultimi anni ed in secondo luogo dall’ignoranza che esiste ancora circa la materia.

Da un punto di vista legale la professione di coach è regolata dalla legge n°4/2013, quello che però conta è cosa si intende con la parola coaching, il coaching è un metodo ben definito:

il Coaching è un metodo di sviluppo  delle potenzialità dei singoli, dei gruppi e delle organizzazioni  che ha come fine ultimo l’alleanza con il proprio cliente nel percorso della sua autorealizzazione. L’attenzione del coach è orientata alla persona, ai suoi poteri e talenti; il coach deve saper ascoltare  le persone, capirle, comprenderle, assumerle creativamente e criticamente; il coach è consapevole delle proprie potenzialità, sa come valorizzarle, svilupparle, allenarle. Il coach utilizza la metodologia di coaching per la quale è in grado di indicare le fonti ed i riferimenti scientifici e non crea nel cliente aspettative infondate. Il coach è uno studente a vita, oltre ad aggiornarsi rispetto alla sua specifica attività mantiene vivo ed operativo l’interesse per tutte le discipline nella consapevolezza della propria ignoranza.

(definizione di AICP Associazione Italiana Coach Professionisti), il coach utilizza principalmente lo strumento delle domande in un ottica di maieutica socratica, non è uno psicologo e non fa psicoterapia.

Per cui, se volete utilizzare il supporto di un coach, mi permetto di suggerire questi step:

1) Informatevi su cos’è il coaching, la rete fornisce tutte le informazioni necessarie, potete anche leggere testi circa il metodo.

2) La professione in Italia si rifà alla legge n°4/2013 andate a leggere di cosa parla.

3) Fate domande alle associazioni più rappresentative in Italia (AICP ed ICF Italia)

4) Contattate un coach e chiedete un incontro puramente conoscitivo senza alcun costo per voi solo per capire come e se può esservi di aiuto.

5) Partecipate ad eventi in cui viene solamente spiegato cos’è il coaching che sono gratuiti e prettamente informativi senza che nessuno alla fine vi proponga alcunché.

6) Esistono solo tre macro aree di coaching: il business coaching per l’ambito professionale, il life coaching per i privati e lo sport coaching per l’ambito sportivo; tutto il resto è altro non coaching.

7) Se decidete di avvalervi di un coach, quest’ultimo è tenuto a consegnarvi copia del codice etico ed a farvi firmare la privacy oltre che un contratto di coaching ad inizio percorso.

8) Prendete informazioni sul coach.

9) Usate sempre il buon senso di cui tutti siamo dotati.

Mi premeva mettere i puntini sulle i anche in questo caso, l’articolo di Severgnini è caduto a fagiolo; più che industria della fragilità come in tutte le cose va ricercata la serietà.

Alla prossima!!

L’importanza di sentirsi dire “bravo”

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Ma dobbiamo proprio darcela da soli la pacca sulle spalle?
Ma dobbiamo proprio darcela da soli la pacca sulle spalle?

Operando come mental coach in ambito sportivo, mi trovo spesso in situazioni in cui agli atleti viene richiesto impegno, sacrificio, risultati con conseguente aumento della pressione di tifosi, allenatori, società sportive, stampa che in automatico si tramuta in un aumento oltre il livello di guardia dello stress.

La stessa cosa accade in azienda, siamo costantemente bombardati da richieste di ogni tipo da parte dei clienti, dei capi, dei collaboratori con il risultato di ritrovarsi sempre presi da tantissime cose che implicano innumerevoli sacrifici in termini di gestione del tempo.

In un caso come nell’altro cerchiamo di dare il massimo anche se non sempre riusciamo a raggiungere i risultati voluti o sperati e quando questo accade veniamo colpiti dagli improperi di allenatori, presidenti, tifosi, capi, clienti e via dicendo che sono sempre pronti ad infliggerci l’avvilente dose di demotivazione pensando, in cuor loro, di ottenere esattamente il contrario, ovvero di spronarci a far meglio.

Facciamo un passo indietro, chi segue questo blog sa bene come ritenga che la motivazione sia un fatto prettamente personale, fortemente legato al nostro modo di essere più o meno resilienti (per chi vuole approfondire l’argomento clicci qui) ovvero alla nostra capacità di persistere nel reggiungimento degli obiettivi, fronteggiando le difficoltà e gli insuccessi che inevitabilmente si parano davanti al cammino.

Chi parla di motivatori o si vende come motivatore personalmente dice delle gran bufale, quello che è possibile fare è sostenere o meno la motivazione altrui ma non certo instillarla per via endovena; possiamo aiutare le persone a far si che vedano sempre il bicchiere mezzo pieno anzichè quello mezzo vuoto.

Sulla base di quello che riportavo sopra purtroppo spesso, troppo spesso, i nostri capi, gli allenatori, i presidenti ecc. con i loro chiamiamoli rimproveri, sono più propensi a farci vedere il bicchiere mezzo vuoto, quindi abbattare la motivazione, anzichè quello mezzo pieno, ovvero a sostenerla.

Ma se, in fin dei conti, può anche starci in alcuni casi un rimprovero anche se fatto male (c’è rimprovero e rimprovero chiaramente), quello che non è assolutamente accettabile è che quando invece le cose riescono bene, anzichè darci una pacca sulla spalla i nostri capi/allenatori tendono a non dire nulla e dare per scontato il fatto che il tal risultato o il tal progetto sia stato raggiunto o completato con i risultati e tempi previsti.

In questo modo viviamo costantemente sotto l’inesorabile spada di Damocle, che rimane appesa sino a quando raggiungiamo i risultati ma è sempre pronta a cadere nel momento in cui le cose non riescono. Questo è il motivo che porta spesso le persone ad entrare in crisi anche se sono all’apice del successo, a perdere comunque fiducia in se stessi, nelle proprie capacità, sino ad arrivare persino alla depressione.

In questo modo viviamo costantemente nella negatività o al massimo nella normalità (quando portiamo a termine i compiti con successo), al contrario se da un lato le sconfitte e le brutte prestazioni devono comunque servirci da stimolo per migliorare e per tornare a fare meglio di prima (vedere il bicchiere mezzo pieno), dall’altro quando otteniamo risultati positivi è assolutamente necessario assaporarli fino in fondo, gioire per quello che si è fatto, premiare anche solo con un “bravo” i componenti del team o i collaboratori.

L’aspetto mentale nello sport come nel lavoro e nella vita in genere è di fondamentale importanza, per essere un buon capo, un valido allenatore, un presidente da ricordare dobbiamo imparare a valorizzare i successi del nostro team, per alimentare quel ciclo virtuoso che parte dall’impegno che mettiamo nel raggiungere gli obiettivi, passa per il senso di competenza una volta che li abbiamo raggunti e che ci è stato riconosciuto e finisce per farci provare piacere nel mettere nuovamente impegno per altri e più ambiziosi risultati.

Alla prossima!!

Creare una cultura del feedback

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Iniziamo a parlarci, non facciamo monologhi!
Iniziamo a parlarci, non facciamo monologhi!

L’argomento del post di oggi lo ritengo particolarmente importante in quell’ottica di cambiamento delle nostre abitudini, ormai fuori tempo e non più in linea con il nuovo mondo di pensare il lavoro e di fare impresa; sto parlando della necessità di creare una cultura reale del feedback.

Partiamo dal cosa si intende con il termine inglese feedback, composto dai termini feed (dare, fornire) e back (restituire, ritornare) può tranquillamente essere tradotto in italiano come la capacità di restiture ad ipotetico interlocutore, la nostra opinione in merito a quanto da lui esposto.

La maggior parte di voi dirà “beh non è quello che facciamo ogni giorno quando parliamo con le persone che incontriamo?“, in effetti la comunicazione non è altro che un processo circolare, rifacendomi a Paul Watzlawick (5 assiomi della comunicazione) possiamo dire che “all’interno di un qualsiasi sistema interpersonale, ogni persona influenza l’altra con il proprio comportamento ed è parimenti influenzata dal comportamento altrui“. In questo contesto però voglio parlare della comunicazione in ambito lavorativo, siamo così sicuri di saper ascoltare il nostro interlocutore? Siamo certi di essere in grado di accettare la sua opinione specie se diversa dalla nostra?

Sono sicuro che molti di voi a questo punto non troveranno più così scontati i concetti di questo post; nelle aziende ed in particolare nei rapporti tra ruoli più elevati e collaboratori, non sempre questa regola basilare della comunicazione umana è applicata. Sarà capitato a tutti di essere stati chiamati dal proprio referente e sentirsi dire che alcune cose non sono state fatte bene o che sarebbe possibile migliorare alcune delle attività di cui vi occupate ed uscendo dall’incontro vi sarete ripetuti nella vostra testa o con i vostri colleghi davanti alla macchina del caffè: “ecco come al solito non gli va mai bene nulla“; viceversa altrettante volte vi sarà stato chiesto dai nostri referenti di compilare questionari di valutazione sulle attività dell’azienda per cui lavoriamo o di esprimere la vostra opinione su determinate circostanze senza poi vedere cambiare alcunché. Perchè accade questo?

Perchè quando riceviamo un feedback che non combacia con quello che vorremmo sentirci dire ci mettiamo subito sulla difensiva e lo rifiutiamo a priori, perdendo l’opportunità di cogliere sfumature diverse che possono aiutare a crescere ed a migliorarci.

In un momento come quello attuale, questa chiusura non porta più da nessuna parte, il cambiamento che deve investire la nostra cultura in modo sicuramente più ampio, passa anche dal cambiare il nostro approccio nell’ascoltare punti di vista diversi dal nostro, sia che siamo collaboratori, a maggior ragione se siamo figure manageriali.

Come dare un feedback?

La cosa principale è quella di restare fermi sui comportamenti mai scendere sul personale, un conto è dire: “questa cosa poteva essere fatta diversamente” un’altro dire: “non sei capace di fare nulla“. Nel primo caso sto dando la mia opinione su un fatto ben delineato e delimitato nel secondo la mia opinione riguarda la persona nella sua interezza, cosa ben diversa.

Come ricevere un feedback?

Beh dobbiamo imparare una cosa fondamentale saper ASCOLTARE, sembra facile ma non lo è affatto ed in seconda battuta non rispondere mai a caldo, ma prendersi il tempo per riflettere e rielaborare ciò che ci è stato detto.

Far crescere la cultura del feeback in azienda permette sicuramente di instaurare un clima più confidenziale, si instaura un processo di miglioramento continuo delle persone ma soprattutto se portato avanti dal management permette di aumentare il livello di motivazione delle persone, perchè fa si che i collaboratori anzichè sentirsi obbligati a dover fare determinate cose perchè imposte dall’alto, scelgono di fare quelle determinate cose in maniera autonoma perchè frutto di una discussione aperta e senza pregiudizi. Questo significa far aumentare nei nostri collaboratori la convinzione di “saper fare” che in automatico innalzano i livelli di autostima che a sua volta sostiene la motivazione, in un loop circolare positivo.

Alla prossima!!

Obiettivi: la strada per il successo.

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In qualità di coach l’argomento obiettivi mi è paticolarmente caro, sarà perchè rappresentano il fulcro di un percorso di coaching, sarà perchè porseli è comunque la base per trasformare un sogno in realtà, ho deciso di dedicare il post di questa settimana proprio a questo argomento.

Può sembrare assurdo, banale, persino noioso ma… credetemi non potete immaginare quante persone, aziende, società sportive, aingoli atleti anche professionisti, non hanno per nulla chiaro quali siano i loro obiettivi.

Ognuno di noi sogna, ha in mente un punto ideale che vorrebbe tanto raggiungere, eppure quando arriva il momento di incamminarsi, di tracciare la rotta per quel punto, capita spesso di perdersi, di imboccare strade sbagliate, di fermarsi davanti ai primi ostacoli che inevitabilmente si parano davanti al cammino. Altre volte invece abbiamo persino paura ad intraprendere quel viaggio e rinunciamo ancor prima di essere partiti, lasciamo i sogni li nel nostro immaginario e ci rinunciamo per il resto della nostra vita adducendo frasi del tipo “tanto non ce la farò mai“, oppure “ti pare che una cosa del genere si possa realmente realizzare?“.

Il filmato che ho inserito in questo post (tratto da La ricerca della Felicità con Will Smith) lo avrete visto e sentito sicuramente, stavolta vi chiedo di guardarlo ed ascoltarlo, ascoltarlo con la testa ma anche con il cuore; quando avrete terminato fermatevi un attimo, prendete qualche minuto per voi e domandatevi “quali sono i miei sogni?“, “possibile che non possa raggiungerli?“, “sto percorrendo la strada giusta per arrivarci oppure non l’ho neanche imboccata?“.

Il primo passo per trasformare i sogni in realtà consiste proprio nel porvi gli obiettivi; partite dal macro obiettivo, quello che rappresenta il soddisfacimento del vostro sogno e scomponetelo in tanti piccoli obiettivi intermedi. Per farvi capire di cosa parlo, pensate ad un autobus che per arrivare dal punto di partenza al punto di arrivo compie un percorso composto da tante fermate. Stabilite la direzione da intraprendere (marco obiettivo) salite sul vostro autobus che riporta scritta quella destinazione e percorrete tutte le fermate (obiettivi intermedi) sino alla destinazione, solo in questo modo sarete in grado di realizzare i vostri sogni professionali, personali, sportivi, aziendali….

Se hai un sogno tu lo devi proteggere…

Alla prossima!!

Allenatore Leader – Leader Allenatore

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Conte, senza dubbio un leader
Conte, senza dubbio un leader

Nel coaching sportivo così come in quello aziendale, vengo spesso interpellato da società ed aziende che sentono la necessità di inserire nel loro staff un coach che alleni la mente in modo specifico.

Chiaramente il primo contatto in tal senso è senza dubbio oltre che la dirigenza anche l’head coach altrimenti definito capo allenatore, colui che ha in mano le redini della squadra e che gestisce in primis il rapporto con i giocatori. Spesso ho parlato di team building, di team coaching ma raramente ho toccato la figura di chi è chiamato a gestire la squadra; l’allenatore ed il suo staff sono fondamentali per il successo o meno del team.

Talvolta accade che l’allenatore sia l’ultimo a volersi mettere in discussione, ti indica magari quello e quell’altro giocatore che secondo lui ha bisogno di supporto ma difficilmente mette sul piatto la possibilità che se un giocatore o la squadra non performa come dovrebbe, la colpa potrebbe anche essere del suo modo di gestire. Mi piace ricordare quello che dice Dan Peterson, uno tra i più grandi allenatori di basket in Italia “esistono i coach sarti ed i coach stilisti: i primi creano il gioco sulla base dei giocatori che hanno a disposizione, i secondi costruiscono la squadra sulla base di quello che è il tipo di gioco in cui credono” ecco personalmente ritengo che un allenatore debba essere sempre un sarto ed adattare giochi e metodi di allenamento a seconda degli individui che compongono il team, sono pochi quelli che possono concedersi di essere stilisti (nel calcio ad esempio Arrigo Sacchi è sicuramente uno stilista), normalmente sono quelli con grande esperienza e che vengono ingaggiati dalle società di rilievo che possono permettersi di prendere qualsiasi giocatore sia necessario al modulo dell’allenatore.

Per essere un leader vero all’allenatore non basta solo avere le skills tecniche occorre anche dell’altro; da dove nasce la leadership dell’allenatore? Nella mia opinione ci sono dei pilastri fondamentali:

1) Quando si forma una squadra, i giocatori che arrivano per quanto capaci se non addirittura campioni, messi insieme non sono ancora team ma un gruppo di individui, non è detto che lo diventino; questo il motivo di molti fallimenti di squadre che sulla carta dovevano dominare ed in realtà sono naufragate; occorre quindi lavorare nella direzione di costruire subito un clima di fiducia e rispetto reciproco.

2) Usare subito il plurale anzichè il singolare quindi: “nostra” squadra anzichè “mia” squadra, “noi” anzichè “io”, la leadership è plurale non singolare .

3) Coinvolgimento massimo di tutti dal primo all’ultimo, nelle riunioni mai fare monologhi, parlare e cofrontarsi con tutti nello staff, con la dirigenza, persino con il magazziniere, far sentire tutti importanti.

4) Stabilire poche regole e chiare, condivise da tutti.

5) Dedicare tempo a tutti i membri del team, non solo durante l’allenamento ma anche a lato dello stesso, coinvolgendoli e facendoli sentire parte importante, in poche parole prendersi cura di loro, quello che gli americani chiamano “care“.

6) Domandare!!! Nei dialoghi siano essi singoli con i giocatori o collettivi con tutta la squadra, domandate, fate parlare i membri del team, fare sermoni senza possibilità di replica non porta da nessuna parte, alla fine entrano da un orecchio ed escono dall’altro, totalmente inefficaci.

7) Mai e poi mai sottolineare il negativo e dare il positivo come scontato, può sembrare una banalità ma vi assicuro che ci sono molti allenatori che sono pronti a farsi sentire quando ci sono cose negative ma che si dimenticano di sottolineare i progressi e le cose fatte bene da parte del team. Riconoscete e premiate quando è stato fatto un buon lavoro.

Questi sono le mie personali basi, a cui segue molto altro chiaramente; ho parlato dal lato sportivo, non ci vuole molto a capire che le stesse regole valgono per la gestione di qualsiasi gruppo.

Alla prossima!!