Lavoro
TFR in busta paga? Caro Renzi stavolta stai sbagliando.
Nelle ultime settimane Matteo Renzi oltre ad incassare la fiducia al senato per l’approvazione del Jobs Act, ha parlato di una nuova possibile rivoluzione nella gestione del Trattamento di Fine Rapporto (TFR), comunemente conosciuto come la “liquidazione”.
Il presidente del consiglio ha dichiarato che il governo ha intenzione di approvare una norma che obblighi le imprese a versare i soldi del TFR direttamente in busta paga dei dipendenti; come esempio ha portato la busta paga di un lavoratore del valore di 1500 € che verrà così accresciuta di ben 55 € in più al mese.
Vista da fuori può sembrare l’ennesima idea brillante del giovane capo del governo che fino ad oggi è stato forse l’unico politico a voler effettivamente cambiare un’inerzia di anni che ci sta devastando, riducendo la spesa pubblica ed apportando modifiche strutturali anche da un punto di vista legislativo, che consentano all’Italia di vedere la luce in fondo al tunnel. Esaminando però la questione un po’ più da vicino si scopre che questa volta il buon Renzi sta prendendo un granchio ed anche bello grosso, che rischia di ritorcersi contro lui e la sua azione e politica, andiamo a vedere il perché:
1) È noto a tutti che il TFR è, per i lavoratori, un tesoretto accumulato in anni di lavoro, che consente agli stessi di garantirsi una vecchiaia migliore (nel caso sia ritirato prima di andare in pensione), di provvedere alle esigenze momentanee della famiglia (nel caso il lavoratore venga licenziato), di poter effettuare investimenti per la realizzazione dei sogni di una vita.
2) Questa norma riguarderà solo il settore privato, le PMI quelle per intenderci con meno di 50 lavoratori, che non sono obbligati a versare le quote di TFR dei dipendenti al Fondo Tesoreria dell’INPS, si autofinanziano con le quote di TFR accantonate.
3) Tornando dal lato lavoratori, il TFR gode di una tassazione agevolata (oscilla tra il 23% ed il 25%), inserito in busta paga perderebbe questa caratteristica e verrebbe tassato ad aliquota ordinaria.
Non occorre essere un genio per capire che questa eventuale norma non porterebbe benefici ad alcuno, se non alle casse dello Stato che vedrebbero aumentare gli introiti fiscali, infatti:
1) I soldi in più in busta paga sono soldi già di proprietà dei lavoratori, che vedrebbero depauperato il tesoretto finale per 55€ in più al mese; dando l’addio ad ogni possibile sostegno economico extra a fine lavoro (vedi sopra). Se l’idea di Renzi è quella di rilanciare i consumi siamo ben lontani dal traguardo, visto anche lo scarso risultato degli 80€, quelli si in più, in busta paga che non ha sortito alcun effetto.
2) Le imprese ed in particolare le PMI, stanno veramente lottando con ogni forza nel mare in tempesta della crisi, togliere improvvisamente anche questi fondi significa sancire il naufragio di tantissime altre aziende e con loro la perdita di altre migliaia di posti di lavoro.
3) Passare da una tassazione agevolata ad una comune significa unire oltre al danno anche la beffa.
Ora la domanda che sorge spontanea è: ma chi è quel genio che ha avuto questa brillante idea??? Caro Renzi, personalmente sono uno che crede nella sua buona fede e voglia di cambiamento, credo però sia arrivata l’ora di fare un’analisi delle persone che la circondano, bastava informarsi con qualche addetto ai lavori per evitarle di fare questo abominevole errore.
Alla prossima!!
Costruitevi la vostra impiegabilità
Dopo aver fatto riferimento alla necessità di attivare reali politiche attive del lavoro, questa volta voglio scendere direttamente sul campo parlando di come costruirsi la propria impiegabilità.
Il tema è di pubblica utilità ma chiaramente diventa preponderante per chi, in questo momento, si trova preso tra gli ingranaggi della crisi e quindi senza lavoro e per tutti coloro che, stanchi dell’assistenzialismo fine a se stesso, decidono di tirarsi su le maniche e di darsi da fare per trovare nuove opportunità di lavoro.
Per rimettersi sul mercato del lavoro non si può prescindere dal fare un’analisi approfondita ed onesta della propria situazione professionale, ciò significa domandarsi: chi sono professionalmente? Quali sono le mie competenze? In quali aree ho accumulato una forte esperienza? Da questa analisi emergerà una vostra fotografia professionale attuale.
Il secondo step è quello di stabilire i propri obiettivi professionali: dove volete andare a parare? Qual’è il vostro tipo di lavoro ideale? Quale area geografica vi interessa?
Una volta fissati gli obiettivi, riprendete in mano la vostra fotografia professionale e domandatevi: ho tutte le competenze per poter soddisfare il mio sogno? Si? Molto bene, tra poco vedremo come procedere; se la risposta è no occorre verificare come e se sia possibile colmare il gap formativo. In questo caso analizzate quali possano essere i corsi di formazione di vostro interesse, scegliete quello che per contenuti fa maggiormente al caso vostro ed investite in formazione. Spendere soldi per un corso che vi consenta di aumentare le vostre competenze, non è mai un investimento vano.
Mettete in atto politiche di Personal Branding, aumentate la vostra presenza sui social network, come spesso ho sottolineato in questo blog, concentratevi su quelli maggiormente efficaci per far conoscere il vostro brand, su tutti: Linkedin, Facebook, Twitter e se siete appassionati di scrittura anche un bel blog ricco di contenuti utili. In questa sede non mi fermerò ad analizzare ogni singolo social, basta che andiate a ritroso nei post e troverete alcuni approfondimenti, in alternativa visitate il sito dei ragazzi di Sestyle.
Non dimenticatevi di coltivare sempre il vostro network personale, è dimostrato che la maggior parte delle opportunità di lavoro scaturiscono proprio da una accurata cura dei propri contatti.
L’altro canale è quello definito “in chiaro” ovvero quello che ufficialmente è visibile a tutti; verificate quello che il mercato offre e candidatevi alla opportunità che trovate maggiormente interessanti per voi. Consiglio: non inviate mai e poi mai curriculum ad indirizzi email generici quali “info@…..” e via dicendo, equivale a gettare alle ortiche la vostra professionalità, non arriverà mai sulla scrivania della persona interessata. Cercate sempre un referente a cui indirizzare il cv, la mail del referente di norma è facilmente trovabile, basta ingegnarsi un pò e la rete ci premia.
E poi??? Perseverare, perseverare, perseverare; credete in voi stessi e nelle vostre capacità, non sarà una passeggiata, sappiate che cercare lavoro è un lavoro.
In ultimo, non sottovalutate la via della autoimprenditorialità, questo è particolarmente vero per figure medio alte come quadri e dirigenti che possono avere questo tipo di collocazione in determinate aree geogriche.
Se nel percorso, vi accorgete che la strada che avete tracciato non è quella corretta, meglio tornare a verificare gli obiettivi dopo di che, rimettersi all’opera con ancora più rigore di prima.
Chiudo con un ultimissimo consiglio: se vi bloccate e temete di non riuscire, chiedete aiuto ad un coach professionista (associazioni di riferimento ICF Italia ed AICP), vi supporterà nello sviluppo della propria autoconsapevolezza e potenzialità, permettendovi di affrontare con sempre maggiore responsabilità, il percorso che vi porterà al raggiungimento dei vostri obiettivi.
Ricordate sempre le parole di Goethe “Qualsiasi cosa sognate di poter fare, iniziatela”.
Alla prossima!!
“Riunione al secondo piano” … si, se solo potessi!
L’argomento di oggi è uno di quelli scomodi, di quelli che facciamo finta di non vedere, vuoi perchè spesso non ci facciamo davvero caso, vuoi perchè farci caso significa prendere atto di una situazione di inciviltà che lascia basiti visto che siamo nel 21 secolo.
Lo scrivevo qualche giorno fa sul mio profilo di Facebook: “Collaborare con una persona che è impossibilitata a muoversi se non su di una carrozzina, mi ha aperto gli occhi e mi fa comprendere come in Italia siamo indietro anni luce sui diritti delle persone afflitte da handicap. Credo che un Paese che si ritene civile non possa prescindere dal fornire questi diritti. Purtroppo siamo presi ognuno dalla nostra quotidianità e fino a quando non ci troviamo nel vivo del problema, viaggiamo con un paraocchi che ci impedisce di accorgerci della realtà. Occorre sensibilizzare di più la società e da oggi ho tutta l’intenzione di farlo più spesso. Come rappresentante delle Istituzioni anche se di un piccolo comune chiedo pubblicamente scusa per la mia ignoranza in materia.”
Dando seguito alle mie parole, eccomi qui a discutere del problema; fateci caso.. guardatevi attorno, affacciatevi alle finestre dei vostri uffici, delle vostre case e ditemi quante persone afflitte da handicap vedete in giro? Quanti dei vostri colleghi siedono su di una sedia a rotelle? Sono certo che la maggior parte delle risposte sarà “nessuno“, vi siete chiesti il perchè? Pensate davvero che non esistano persone afflitte da handicap?
Guardiamo ai nostri uffici, ai negozi nelle città, ai parcheggi pubblici, ai parcheggi a silos, ai ristoranti, ai bar… secondo voi una carrozzina può entrare nella maggior parte di questi edifici? Per non parlare dei posti riservati ai portatori di handicap regolarmente sfruttati da chi non ne ha bisogno o peggio ancora coloro che utilizzano la disabilità per truffare lo Stato.
Come dicevo su Facebook, io il paraocchi me lo sono tolto solo ora, grazie ad una persona che deve, suo malgrado, condividere l’esistenza con una sedia a rotelle e che ho avuto la fortuna di incontrare, con cui da qualche tempo collaboro in modo più stretto; come per magia la realtà si è palesata sotto i miei occhi: uffici non attrezzati per accogliere queste persone (da qui il titolo ironico al post), ristoranti inaccessibili e così via; questa mattina recandomi al lavoro mi sono voluto togliere lo sfizio di guardare ogni negozio che incrociavo per la strada verificando se fossero presenti scivoli per l’accesso, il 90% ne era sprovvisto, per non parlare dei negozi su più piani, solo i grandi centri commerciali hanno ascensori nei negozi del centro ci sono solo le scale mobili o le scale normali… risultato inaccessibili.
Non facciamo caso a queste cose se non quando ci sbattiamo il muso, per la maggior parte della società queste persone sono semplicemente dei fantasmi, non li vediamo per strada, non li vediamo nei ristoranti, non li vediamo nei negozi, non li vediamo negli uffici, per cui pensiamo che non esistano, invece esistono eccome, solo che il mondo non sa accoglierli, per cui rimangono rintanati nelle loro abitazioni, dipendendo loro malgrado da qualcuno, perdendo totalmente la libertà e la dignità.
Con questo non voglio erigermi a “santo” io per primo sino ad oggi ho vissuto nell’oblio, credo però che se ognuno di noi inizia ad aprire gli occhi ed aiuta altri a farlo, ci guadagneremo tutti e potremo finalmente definirci società civile.
Alla prossima!!
Reddito minimo garantito in Italia? A voi l’ardua sentenza.
La cosa curiosa è che avevo iniziato a scrivere questo post con idee e contenuti totalmente differenti, volevo parlare di coaching e di come non dobbiamo mai mollare anche in mezzo alle avversità. Poi accade che ieri mattina in viaggio per lavoro mi imbatto su Radio 24 su l’ennesima disquisizione sul reddito minimo garantito.
Che poi, se fate una ricerca sul web, scoprite che nemmeno i i più fervidi sostenitori dello strumento sanno bene di cosa si tratta, c’è chi accomuna il reddito minimo garantito al reddito di cittadinanza, chi invece le ritiene due cose distinte, tipico del pressapochismo italico (per avere una idea chiara di cosa sia uno e l’altro vi invito a leggere questo articolo di Emanuele Ferragina sul suo blog all’interno del sito web del Fatto Quotidiano).
Preso dal dibattito ho deciso di cambiare totalmente il post e siccome parliamo comunque di welfare e quindi, di lavoro, mi sono detto perchè non dire la mia anche su questo tema? Ed eccomi qua… ora voglio fare una premessa a scanso di equivoci, riporterò le mie personali idee che come tutte le idee sono discutibili e confutabili, voglio però precisare che lo strumento, così come è concepito a livello teorico è un ottimo strumento, il problema sta poi nell’applicare lo strumento teorico alla pratica di tutti i giorni e calarlo quindi nella realtà culturale del luogo dove lo si vuole applicare. Qui casca l’asino e sorgono i problemi che voglio tentare di mettere sul piatto.
Partiamo dal presupposto che con il termine reddito minimo garantito si intende “un importo che lo stato si fa carico di versare (maggiorato a seconda della composizione del nucleo familiare) a tutti i cittadini che non raggiungono la soglia di reddito stabilita“; la soglia viene stabilita per l’appunto dal legislatore; questo chiaramente comporta la possibilità di ridurre notevolmente il rischio di povertà; alcuni asseriscono che la cosa contribuirebbe anche a rilanciare i consumi. Attualmente sembra che tutti gli stati dell’Unione Europea applichino questo strumento ad eccezione di Italia e Grecia, qualcuno dice anche Ungheria.
La cifra, considerata soglia minima, che va per la maggiore è quella di 400€ mensili, il che significa che se oggi fosse applicata in Italia costerebbe allo stato 7,1 miliardi di Euro.
Fin qui i fatti, veniamo ora alla mia personale analisi che schematizzo in punti:
1) Perchè in Germania, Svezia ecc. lo strumento esiste ed in Italia no? Questa la domanda che i sostenitori del reddito minimo garantito fanno nei vari blog, articoli di giornali, servizi televisivi. La risposta che mi viene spontanea è una controdomanda, secondo voi Germania, Svezia, Francia, Inghilterra ecc sono uguali all’Italia? In particolare il modello culturale tedesco è uguale al modello culturale Italiano?
2) L’introduzione del reddito minimo garantito (rmg) in un paese come il nostro ai vertici in Europa per il sommerso, dove il “nero” vale 333 miliardi di Euro pari al 21% del Pil, come sarebbe preso da una larga fetta di cittadini? Tenete conto che la Germania viaggia al 13% del Pil, la Francia e l’Inghilterra al 10%, la Svizzera al 7% l’Austria all’8%, Norvegia e Svezia al 14%; indovinate un pò chi ci supera? Guarda caso proprio la Grecia con il 24%.
3) Come dicevo molti asseriscono che il rmg rilancerebbe i consumi; si presume che il reddito minimo garantito dovrebbe andare a coprire le parti più disagiate della popolazione, tra queste indubbiamente una buona fetta oggi come oggi è costituita dagli immigrati che come certamente saprete, di tutto quello che guadagnano tengono una piccolissima parte (vivendo spesso in condizioni assurde) e girano la maggior parte dei redditi alle loro famiglie nei paesi di origine, i 400€ del rmg ricevuti senza fare nulla secondo voi sarebbero reinvestiti totalmente nei consumi? Non basta se ci pensiamo bene ed analizziamo i dati di questi anni di crisi, in realtà una specie di reddito minimo garantito oggi già esiste ed è la CIGS ovvero la Cassa Integrazione Straordinaria che riconosce l’80% della retribuzione (cifra ben più alta dei 400€ del rmg); in linea teorica al massimo è possibile fare 36 mesi di CIGS ma sappiamo bene che in molti casi per le grandi aziende sono in atto leggi speciali che consentono anni e anni di cassa (posso portarvi esempi se volete). Se fosse vero quanto asserito sull’aumento dei consumi oggi dovremmo essere in piena ripresa eppure nonostante si riceva l’80% dello stipendio non si spende un euro anzi…, figuriamoci con i 400€ mensili del rmg.
Riassumendo, ribadisco che lo strumento è sicuramente valido se calato in una realtà ottimale sia dal punto di vista culturale che organizzativo e legislativo, in Italia siamo ancora lungi dal ricadere all’interno di queste caratteristiche, se non altro per i dati che ho dato sopra. Lo dico con grande dispiacere perchè sono Italiano e sono orgoglioso di esserlo, ma non posso bendarmi e far finta di non vedere quello che è sotto gli occhi di tutti; torno a ripetere quello che dico da tempo, occorre cambiare, guardare avanti, capire che così non possiamo andare avanti, prendiamo spunto dagli altri paesi europei, studiamo i loro modelli e cerchiamo di applicarli anche da noi, solo allora uno strumento importante come il reddito minimo garantito potrà essere introdotto anche nel nostro Paese.
Appuntamento a Settembre!!
Comunicazione: RU e dintorni come tutti gli anni di questi tempi va in ferie, vi do appuntamento alla prima settimana di settembre quando ripartiranno le pubblicazioni, nel frattempo seguitemi su Twitter, Facebook e Linkedin. Buone Vacanze!
SVEGLIAMOCI, oppure affondiamo…
Pochi sanno che sono consigliere comunale in un piccolo paese della Vallesina (Marche), una esperienza che ho voluto compiere con altri semplici cittadini, stufi di lamentarsi senza fare nulla per il bene del nostro Paese, una lista civica trasversale la cui esperienza sta volgendo al termine. Venerdì scorso il Sindaco ha voluto indire un consiglio comunale aperto sullo stato occupazionale della Vallesina a cui hanno partecipato l’Assessore Regionale al Lavoro Marco Luchetti, il commissario della Provincia Patrizia Casagrande, esponenti del mondo sindacale locale, delle banche e di Confindustria.
Nel mio intervento sono tornato a calcare la mano in merito alla parola cambiamento di cui ho più volte discusso in questo blog e negli incontri a cui ho preso parte. Vi riporto un passaggio dell’intervento, sono fermamente convinto che il Paese tutto debba svegliarsi e mettere in atto il cambiamento, altrimenti il rischio è affondare inesorabilmente.
“La situazione occupazionale della Vallesina è sicuramente allarmante, corrisponde all’andamento regionale che rispecchia in gran parte il dato nazionale anche se con qualche punto percentuale migliore.
Il Rapporto dell’industria marchigiana del 2012 presentato nelle sede di Banca Marche qualche mese fa ci ha consegnato dati allarmanti circa la capacità di fare impresa delle aziende marchigiane, in particolare delle PMI che come tutti sappiamo costituiscono la spina dorsale del modello economico marchigiano.
La parola crisi deriva dal greco “krino” che significa discernere, valutare; non ha di per se l’accezione negativa che tutti noi tendiamo a dare, rappresenta indubbiamente un momento di riflessione. Ritengo con ragionevole certezza di poter dire che crisi è un sinonimo di cambiamento, non a caso la crisi arriva quando qualche cosa è cambiato nel mercato ed è solo con un momento di riflessione a cui far seguire importanti cambiamenti, che si può pensare di uscirne.
Cambiamento, questa è la parola chiave!! Una parola con cui molti tendono a riempirsi la bocca ma che pochi o nessuno al momento, mettono realmente in atto.
Tutti gli attori presenti nel mercato dl lavoro: imprese, lavoratori, istituzioni ed organizzazioni sindacali e datoriali, hanno l’obbligo di capire che questa non è una normale oscillazione del ciclo economico, ma una crisi strutturale dovuta ad un mutamento profondo degli assetti economici mondiali che ha spostato gli equilibri e fatto crollare in pochissimo tempo, teorie economiche ritenute inossidabili. Si pensi al famoso modello marchigiano, tanto osannato ed insegnato nelle scuole ed università italiane per decenni ma che oggi è diventato carta straccia.
Cambiamento dunque perché o si cambia o si soccombe! Vale per l’impresa, lo dicevo poco fa, piccolo non è più bello, oggi per competere occorre aumentare le dimensioni, occorre fare sistema, occorre fare rete, rete di imprese che insieme, con maggiori energie, competenze e potere economico possono affrontare i mercati internazionali. Gli imprenditori devono uscire dalla logica che il mio dirimpettaio è il mio nemico e capire che solo unendo le forze per studiare nuovi prodotti, ottenere credito, avere maggiore potere contrattuale e capacità produttiva si può affrontare la concorrenza internazionale e penetrare in mercati che da soli sarebbero impossibili da affrontare.
Internazionalizzare dunque non delocalizzare, una politica questa che può essere sembrata vincente nel breve periodo perché ha aumentato i profitti ma che è palesemente perdente nel medio lungo perché distrugge ricchezza e crea povertà, una povertà che inevitabilmente si ritorce contro le stesse aziende che l’hanno praticata.
L’Italia ha delle peculiarità e su quelle deve puntare: l’eccellenza nella moda, nel design, nel turismo, nell’alimentare, nel mercato del lusso, nell’alta tecnologia. Occorre innovare e farlo realmente, puntare su produzioni povere non è più pensabile quando all’estero questo tipo di produzioni viene realizzato a costi palesemente inferiori.
Va abbassato il cuneo fiscale per le imprese, non è pensabile che un lavoratore costi all’azienda oggi il doppio se non il triplo di quello che percepisce realmente, è facile capire che questa è una tattica perdente per la competitività delle imprese e per i lavoratori stessi ma anche per possibili investitori stranieri.
Il sistema finanziario deve tornare a concedere credito alle aziende ed ai cittadini, lo ha detto anche il Governatore della Banca Centrale Europea Draghi che ha dimostrato con i fatti di voler creare condizioni di miglior favore per le imprese e per la gente, condizioni però bloccate dalle banche che a parole si dicono disponibili ad andare incontro alle imprese ma che nei fatti continuano a tenere i rubinetti ben serrati.
Questi passi vanno fatti uniti ed insieme! Perché mai come oggi l’unione fa la forza, credo che la nuova presidenza appena insediata di Confindustria Ancona si voglia rendere interprete di questo desiderio di cambiamento imprenditoriale almeno questo è quello che si è evinto dalle parole di insediamento del Presidente Claudio Schiavoni AD di IMESA, una delle poche aziende della Vallesina che è un esempio di crescita da anni e che ancora oggi, in questa situazione, è in continuo sviluppo anche grazie ai paesi Esteri.
Cambiamento anche nei lavoratori, inutile prenderci in giro, lo dico da addetto ai lavori, il mercato del lavoro è cambiato, pensare che tutto tornerà come prima è anacronistico e assolutamente utopico; il posto fisso come lo intendevano i nostri genitori non esiste più, nell’arco della vita professionale cambiamo e cambieremo almeno 4/5 volte (dati del Ministero del Lavoro) il ns. percorso professionale ed i nostri figli probabilmente ne cambieranno 10 se non di più, a volte per ns. volontà, altre, come nel caso della crisi che stiamo attraversando, per volontà altrui.
Cambiare lavoro non deve essere vissuto come una minaccia, ma come una opportunità di crescita, significa rinnovarsi, aiuta ad innovare, ad acquisire nuove competenze, funge da stimolo a non adagiarsi su quanto raggiunto per scalare posizioni più migliori.
In un mercato del lavoro che è mutato, perseverare con le vecchie logiche di sostegno al lavoratore è una strategia non solo perdente per il lavoratore stesso ma anche per i conti di imprese e Stato. Dobbiamo mettere in pista nuovi strumenti a sostegno dell’occupabilità e del lavoratore.
In questo contesto la Riforma Fornero è stata solo un maldestro tentativo di cambiamento, iniziato con tutte le buone intenzioni ma naufragato clamorosamente al termine dell’iter di approvazione a causa dei veti incrociati di tutte le parti chiamate a dire la loro, con il risultato di partorire un obrobrio che invece di creare occupazione l’ha palesemente ridotta, modificando qualcosa solo in ambito di uscita del lavoratore. Sono sempre stato e continuo ad esserlo un fermo sostenitore della flexsecurity del prof. Ichino, l’unica vera riforma seria del mercato del lavoro da applicare in toto per facilitare il cambiamento che stiamo vivendo e per assicurare ai lavoratori maggiori opportunità occupazionali.
Veniamo quindi al cambiamento nelle relazioni industriali e nelle istituzioni.
Gli ammortizzatori sociali sono sacrosanti, ma vanno usati non abusati, conosco storie di lavoratori che sono in Cassa Integrazione da anni, in alcuni casi anche da decenni e che si trovano oggi, come ieri, senza alcuna possibilità di rientrare nel posto di lavoro. Con il risultato di essere rimasti fuori dal mercato del lavoro per anni, aver perso competenze e ritrovarsi oggi in condizioni di gran lunga peggiori rispetto all’inizio del periodo di cassa.
Occorre affiancare agli ammortizzatori sociali che sono per l’appunto passivi, politiche attive del lavoro adatti ai tempi mutati, che siano efficaci nell’ottica di assicurare NON la stabilità del posto di lavoro ma la CONTINUITA’ tra le diverse successive collocazioni lavorative, da realizzarsi innanzitutto attraverso un corretto incontro tra domanda e offerta. Fornire nei momenti di cassa integrazione momenti formativi SERI per permettere ai lavoratori di incrementare le proprie competenze e migliorare la propria occupabilità. Questo, secondo me, significa essere socialmente responsabili del futuro dei propri collaboratori e cittadini.
….
Questi dati fanno chiaramente capire come si possano mettere in pista, anche usufruendo di fondi europei come avviene in almeno tre regioni dl nord Italia, servizi che supportino il lavoratore nel trovare queste opportunità che il mercato comunque offre.
….
In definitiva occorre che alle misure a sostegno della crescita del sistema Paese, di cui oggi tanto si discute, vengano affiancate altrettante politiche attive a sostegno dell’occupazione e del lavoratore che, in caso di perdita del posto di lavoro ed in ottica di responsabilità sociale, non va abbandonato a se stesso ed al fai da te, ma accompagnato ed orientato ad intraprendere nuovi percorsi professionali e incoraggiato a cogliere nuove opportunità magari più interessanti e stimolanti.
Cambiamento dunque, questo il verbo che dobbiamo tutti impegnarci a mettere in pratica se vogliamo uscire da questo pantano, ritrovando un modo etico di fare impresa basato sulla coesione di tutte le forze in campo: politiche, imprenditoriali, sindacali ed umane.
Chiudo con una frase in cui mi sono imbattuto solo ieri, è di Robert Kennedy e dice “Il cambiamento, con tutti i rischi che comporta, è la legge dell’esistenza”.”
Alla prossima!!
Cattive abitudini….. in ufficio!!
Questa settimana mi sono imbattuto in un articolo del Corriere della Sera scritto da Elvira Serra, in cui vengono riportati i risultati di una ricerca fatta dall’Institute of Leadership & Management inglese e pubblicata sul Daily Mail; i dati sono riferiti ai comportamenti ritenuti più irritanti negli uffici inglesi.
Immediato fare il parallelo con noi italiani, su molte cose siamo simili inutile dirlo, credo però che in alcuni casi noi italiani abbiamo peculiarità veramente uniche che sono tipiche del nostro popolo.
Prendiamo le riunioni: agli inglesi una cosa che da fastidio è che si arrivi in ritardo, agli italiani è noto che ad arrivare in ritardo sono notoriamente coloro che le hanno indette (spesso i capi stessi), che arrivano con un finto fiatone cercando di far passare il concetto che hanno lavorato tutta la notte per arrivare preparati.
Aneddoto in materia realmente accaduto: un capo fissa con il suo collaboratore una serie di riunioni, le fissa in modo che tutti sappiano che in quel giorno a quell’ora è assolutamente vietato prendere impegni. Invito mandato addirittura tramite outlook in modo che tutti i calendari degli interessati siano allineati. Alla prima riunione il capo si presenta con 15 minuti di ritardo, la seconda viene addirittura spostata dal capo che afferma “non dovete pensare che le riunione con me siano sacre, è l’ultimo problema che avete”!!!! Lascio a voi ogni interpretazione.
L’atra cosa che urta inglesi ed italiani, sempre parlando di riunioni, sono gli interventi completamente inutili dei “saputoni” che non perdono occasione di prendere la parola per rimarcare cose già dette dal capo a suo esclusivo compiacimento (e vi assicuro che si compiacciono anzichè provare fastidio) o per dire cose che non portano alcun valore aggiunto, solo esibizionismo verbale per l’appunto. Siamo pieni di persone fatte così, non ditemi che a nessuno di voi è mai capitato il classico l…….o.
Un’altro aspetto fastidioso tipicamente italiano, che in passato ho già fatto presente in altri post, è l’uso eccessivo di termini anglosassoni mischiati all’italiano. Sono il primo ad affermare che spesso l’inglese ha dei termini che con estrema difficoltà possiamo tradurre in italiano se non usando numerose parole, questo però non giustifica chi fa interi discorsi in cui metà sono fatti in italiano e metà in inglese; anche questo è esibizionismo verbale.
Vogliamo parlare delle email? In questo tutto il mondo è paese non c’è niente da fare oggi abusiamo delle mail, la ricerca in questione dice che addirittura tra compagni di scrivania, anzichè alzare la testa dallo schermo e parlare, spesso ci mandiamo delle mail; qualcuno lamenta anche la lunghezza eccessiva delle mail e la messa in copia conoscenza anche di persone assolutamente inutili e non coinvolte nella discussione, con conseguenti perdite di tempo. In questo permettetemi però di fare dei distinguo, sarà perchè io sono uno che usa molto le mail e che scrive anche tanto (qualche collega scherzosamente mi definisce grafomane), fatto sta che a volte si scrivono email anzichè telefonare o parlare per guadagnare tempo e per evitare di disturbare il diretto interessato, che con tutta calma può leggere la mail nel momento più opportuno, inoltre io sono uno che oltre alla passione per la scrittura è un cultore del “verba volant, scripta manent”, preferisco quindi mettere in copia anche persone che direttamente non sono coinvolte ma che, in caso di disquisizioni, verrebbero poi chiamate in causa, salvaguardarsi quindi è sempre utile. Questo non toglie che non si deve abusare e che se ho una persona in ufficio a cui devo dire qualcosa mi alzo e gliene parlo, la comunicazione verbale e l’interazione è fondamentale.
Chiudiamo con una cosa curiosa ma che credetemi è spesso fonte di irritazione anche se nascosta, gli odori di chi si porta il pranzo da casa e mangia sulla scrivania; la situazione economica odierna su questo aspetto porta molta sopportazione ma a quanti di voi è capitato di sentire l’odore del pesce riscaldato, di quello che ha la fissa per il cibo indiano e via dicendo?
In senso lato credo che molte volte la verità sia nelle parole di Pier Luigi Celli direttore generale della Luiss di Roma che afferma: “il tratto distintivo degli italiani è la mancanza di rispetto. Lo facciamo senza rendercene nemmeno conto perchè siamo di un individualismo notevole”.
Alla prossima!!
Un’Italia a due velocità
Alla luce degli ultimi avvenimenti politici, il balletto messo in scena per tentare di dare un governo alla nazione, naufragato clamorosamente; l’incapacità delle forze politiche neoelette di scegliere un nuovo Presidente della Repubblica, il sacrificio enorme di un vecchio saggio come Napolitano che a 87 anni ha dovuto, rinunciare al meritato riposo per fare da pacere e risolvere la questione, come un nonno con i suoi nipotini bizzosi; torno a parlare di un Paese che sembra talmente immaturo nella sua classe dirigente, tanto da non rendersi conto che il tempo scorre inesorabilmente e che per ogni minuto perso: aziende, persone, famiglie intere rischiano di ritrovarsi sul lastrico.
Spesso parliamo delle differenze tra noi ed altri paesi europei in primis la Germania, che nonostante la crisi, sembra barcamenarsi sicuramente meglio di noi. Siamo d’accordo, tra noi ed i teutonici non è mai corso buon sangue, sin dall’epoca romana ed anche oggi, quando sento in tv giornalisti come Tobias Piller del Frankfurter Allgemeine Zeitung che non perdono occasione per denigrare il nostro Paese con un aria strafottente, provo un certo fastidio per non dire peggio.
Occorre però essere onesti nel riconoscere alla Germania una forte determinazione e serietà nel portare avanti, riforme (anche impopolari) basate su larghe intese, una industria veramente innovativa e di qualità, una grande voglia di integrazione dopo la caduta del muro di Berlino, quando si sono incontrati due popoli seppur della stessa origine, profondamente diversi sia come filosofia di vita che come ricchezza personale.
Ecco da qui voglio partire, al contrario dei tedeschi l’Italia è da sempre un paese diviso a metà con un centro nord abbastanza uniforme su un livello di servizi, industria, efficienza sicuramente accettabile ed un centro sud che funziona esattamente al contrario. Premetto che il mio non è un discorso razzista, tutt’altro anche perchè mi trovo esattamente a metà essendo Marchigiano, la mia è una dichiarazione bastata sui fatti e sui numeri.
Su tutti due dati che mi interessano particolarmente, occupandomi di lavoro e risorse umane, se guardiamo il tasso di disoccupazione relativo al 2012 emerge che il centro nord si attesta su una media del 7,26% con picchi positivi del 5% in Trentino Alto Adige, mentre al centro sud la disoccupazione si attesta su una media del 15,16% con picchi negativi in Campania e Calabria del 19% ed in Sicilia del 18%.
Capite quindi che nel dato medio si evidenzia praticamente una disoccupazione doppia tra le due Italia; la differenza la si trova anche nelle politiche attive al lavoro, come evidenziavo nel mio post Rapporto 2012 sull’industria Marchigiana ci sono tre Regioni del nord come Piemonte, Lombardia e Veneto che si spendono molto in questo senso contrariamente alle altre parti del Paese che continuano a limitarsi a politiche passive ed a finanziare formazione inutile.
Questi sono solo due dati del settore di mio interesse, ma non è difficile trovarne altri che testimoniano questa lontananza tra le due parti del Paese e l’incapacità della politica di chiudere il gap, esattamente come hanno fatto i tedeschi una volta che si sono uniti.
Credo che la politica debba ripartire da qui e lo debba fare con estrema urgenza, lasciando da parte i giochetti di palazzo e gli interessi personali, per dedicarsi finalmente allo sviluppo del Paese, rimanere in questo stato di stallo non può far altro che peggiorare le cose. Dobbiamo renderci conto che la crisi ha velocizzato cambiamenti che avremmo, in parte, già dovuto mettere in atto da tempo; oggi dobbiamo farli tutti e con estrema urgenza.
Alla prossima!