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TFR in busta paga? Caro Renzi stavolta stai sbagliando.

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Matteo Renzi
Matteo Renzi

Nelle ultime settimane Matteo Renzi oltre ad incassare la fiducia al senato per l’approvazione del Jobs Act, ha parlato di una nuova possibile rivoluzione nella gestione del Trattamento di Fine Rapporto (TFR), comunemente conosciuto come la “liquidazione”.

Il presidente del consiglio ha dichiarato che il governo ha intenzione di approvare una norma che obblighi le imprese a versare i soldi del TFR direttamente in busta paga dei dipendenti; come esempio ha portato la busta paga di un lavoratore del valore di 1500 € che verrà così accresciuta di ben 55 € in più al mese.

Vista da fuori può sembrare l’ennesima idea brillante del giovane capo del governo che fino ad oggi è stato forse l’unico politico a voler effettivamente cambiare un’inerzia di anni che ci sta devastando, riducendo la spesa pubblica ed apportando modifiche strutturali anche da un punto di vista legislativo, che consentano all’Italia di vedere la luce in fondo al tunnel. Esaminando però la questione un po’ più da vicino si scopre che questa volta il buon Renzi sta prendendo un granchio ed anche bello grosso, che rischia di ritorcersi contro lui e la sua azione e politica, andiamo a vedere il perché:

1) È noto a tutti che il TFR è, per i lavoratori, un tesoretto accumulato in anni di lavoro, che consente agli stessi di garantirsi una vecchiaia migliore (nel caso sia ritirato prima di andare in pensione), di provvedere alle esigenze momentanee della famiglia (nel caso il lavoratore venga licenziato), di poter effettuare investimenti per la realizzazione dei sogni di una vita.

2) Questa norma riguarderà solo il settore privato, le PMI quelle per intenderci con meno di 50 lavoratori, che non sono obbligati a versare le quote di TFR dei dipendenti al Fondo Tesoreria dell’INPS, si autofinanziano con le quote di TFR accantonate.

3) Tornando dal lato lavoratori, il TFR gode di una tassazione agevolata (oscilla tra il 23% ed il 25%), inserito in busta paga perderebbe questa caratteristica e verrebbe tassato ad aliquota ordinaria.

Non occorre essere un genio per capire che questa eventuale norma non porterebbe benefici ad alcuno, se non alle casse dello Stato che vedrebbero aumentare gli introiti fiscali, infatti:

1) I soldi in più in busta paga sono soldi già di proprietà dei lavoratori, che vedrebbero depauperato il tesoretto finale per 55€ in più al mese; dando l’addio ad ogni possibile sostegno economico extra a fine lavoro (vedi sopra). Se l’idea di Renzi è quella di rilanciare i consumi siamo ben lontani dal traguardo, visto anche lo scarso risultato degli 80€, quelli si in più, in busta paga che non ha sortito alcun effetto.

2) Le imprese ed in particolare le PMI, stanno veramente lottando con ogni forza nel mare in tempesta della crisi, togliere improvvisamente anche questi fondi significa sancire il naufragio di tantissime altre aziende e con loro la perdita di altre migliaia di posti di lavoro.

3) Passare da una tassazione agevolata ad una comune significa unire oltre al danno anche la beffa.

Ora la domanda che sorge spontanea è: ma chi è quel genio che ha avuto questa brillante idea??? Caro Renzi, personalmente sono uno che crede nella sua buona fede e voglia di cambiamento, credo però sia arrivata l’ora di fare un’analisi delle persone che la circondano, bastava informarsi con qualche addetto ai lavori per evitarle di fare questo abominevole errore.

Alla prossima!!

L’importanza di chiamarsi… Responsabile Risorse Umane

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Prendo spunto dalla commedia teatrale di Oscar Wilde, trasformata poi in film da Oliver Parker (di cui vedete la locandina a lato), in cui si gioca sulla parola “Earnest” che in inglese significa “onesto” ma che si pronuncia allo stesso modo di “Ernest” (Ernesto).

Vero che nel tipico stile di Wilde, la commedia in realtà è una presa in giro dei costumi Vittoriani dell’epoca, credo però che se prendiamo il titolo così com’è possa essere parafrasato con il concetto di cui vi voglio parlare, ovvero l’importanza della funzione Risorse Umane in qualsiasi tipo di azienda.

Sia come operatore del mondo RU ma ancor di più come Vice Presidente di AIDP Marche (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) sono perfettamente conscio che sono molto poche le aziende italiane dotate di una funzione Risorse Umane che tratti a 360 gradi tutti gli aspetti di questo mondo meraviglioso; cosa questa ancor più vera se parliamo delle PMI.

Tralascio di parlare di multinazionali e di aziende grandi, nelle grandi mi permetto di inserire anche tutte quelle aziende che hanno dai 1000 dipendenti in su. Voglio invece puntare l’attenzione sulle PMI in senso stretto che come sappiamo costituiscono la stragrande maggioranza del tessuto imprenditoriale italiano. Oggi come ieri, in moltissime di queste aziende, la funzione al massimo esprime una o due persone incaricate per lo più della sola gestione amministrativa; spesso non ci sono neanche queste, visto che la gestione non è sicuramente strategica per l’impresa, tanto da essere data spesso in outsourcing.

Chi è allora che si occupa di Risorse Umane? Naturalmente l’imprenditore, che ha la pretesa di essere il primo ed unico fine conoscitore del mondo risorse umane (come del resto del commerciale, dell’amministrazione e via dicendo); è lui che si occupa di assunzioni (spesso suggerite da amici e parenti), è lui che si occupa di politiche retributive (andando spesso a simpatia), è lui che si occupa di formazione promuovendosi come vero ed unico formatore del suo personale, è lui che si occupa di relazioni sindacali nelle rare volte che incontra i sindacati e che spesso interpreta come veri e propri incontri di boxe.

Mi fermo qui perché chi lavora nelle PMI sa bene come funzionano le cose, ma la funzione RU è tutt’altro, al suo interno sono diversi i processi da seguire con le giuste competenze: pianificazione, reclutamento, selezione ed inserimento in azienda, formazione, valutazione del personale, politiche retributive e di carriera, relazioni sindacali, amministrazione e rapporti con il personale.

Oggi più di ieri le risorse umane hanno assunto un carattere fondamentale all’interno dell’organizzazione, l’evoluzione verso una sorta di RU 2.0 porta con se anche la necessità di un incremento delle competenze di chi ricopre questa funzione che non può più essere lasciata in un angolo o demandata al titolare.

Sviluppare sempre più professionalità in ambito HR è una delle strategie che le aziende italiane devo approntare per recuperare terreno; per troppo tempo ci siamo cullati sulle cosiddette “vacche grasse” che oggi sono diventate talmente magre da non potersi più permettere di rimanere inermi davanti alla crisi incalzante. Mi rendo conto altresì che per molte di queste aziende, dotarsi in pianta stabile di una figura professionale come quella di un Responsabile Risorse Umane con tutti i sacri crismi e competenze, può essere un investimento di difficile realizzazione, ci sono però numerosi professionisti nel mercato del lavoro (e mi riallaccio al mio precedente post Generazioni Contro) che possono essere ingaggiati come consulenti esterni a costi ridotti e ben determinati per l’azienda ma che portano un grande vantaggio competitivo in termini di esperienza e conoscenza.

In sintesi le aziende ed in particolare le PMI, devono capire che la crisi in atto ha creato profondi cambiamenti e nulla tornerà più come prima, prima si realizza questo, prima si reagisce e prima ci si rimette in pista. La funzione Risorse Umane è una di quelle funzioni a cui oggi non si può pensare di rinunciare, continuare a pensare che tutto quanto fatto sino ad oggi possa andare bene anche per domani è pura follia, rimanere inermi non farà che peggiorare e cose.

Alla prossima!

GENERAZIONI CONTRO

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In questi giorni sono stato sollecitato da diversi articoli apparsi su settimanali e quotidiani, inerenti i 50enni (Clooney ne è l’icona), articoli che si sono sommati ai fiumi di inchiostro versati per la disoccupazione giovanile, generazioni messe a confronto specialmente sul lato lavoro, in una sorta di contrapposizione inspiegabile.

In questo blog si parla di risorse umane e di tutto quanto gira attorno a questo meraviglioso mondo, per cui affronterò la diatriba da questo punto di vista con qualche flash su aspetti di natura psicologica.

Inutile dire che la categoria dei 50enni è tra le protagoniste di coloro che si avvalgono del servizio di outplacement quando sono in uscita da un’azienda; come mai? Nel periodo pre-crisi la motivazione era legata alla normale successione di professionalità in determinate posizioni (manageriali in particolare), in questo periodo di crisi invece le uscite sono legate sostanzialmente a motivi prettamente di natura economica, si tende ovvero a tagliare i costi privandosi di professionalità che vengono, erroneamente, definite obsolete e che occupano posizioni spesso di rendita a costi troppo elevati per le aziende, sostituendoli con figure più giovani a costi decisamente inferiori o non sostituendoli affatto ma ridistribuendo i carichi di lavoro tra chi rimane.

Torniamo all’inizio, si parla tanto di guerra tra padri e figli intesa come guerra tra generazioni per il posto di lavoro, tra privilegiati (i padri) e svantaggiati (i figli); personalmente credo che la domanda da farsi sia un’altra: la professionalità è ancora ricercata in azienda oppure no? La conoscenza o come viene definito in inglese il know-how è o no un fattore determinante per il successo di un’impresa?

Provo ad azzardare delle risposte che sono, chiaramente assolutamente personali; quanti tra voi avete provato a fare una ricerca di posizioni lavorative nei siti di web recruiting? Provate e scoprirete che per la stragrande maggioranza si tratta di stage, contratti a progetto, contratti di apprendistato ed al massimo tempo determinato, posti di lavoro dedicati chiaramente ai giovani, cosa che va in deciso contrasto con i dati allarmanti relativi alla disoccupazione giovanile (ma questo è un altro discorso), pochi i posti per chi possiede già delle professionalità consolidate.

La realtà è che la crisi ha cancellato buona parte del middle management, creando aziende piatte, piene di giovani neolaureati con una conseguente bassa professionalità, gestite direttamente dagli imprenditori o al massimo da uno o pochi dirigenti di esperienza che diventano l’unico faro per i giovani, a cui volgere lo sguardo per navigare nel mare del business moderno. Peccato che queste poche figure di esperienza rimaste in azienda non sono più in grado di programmare, di portare avanti progetti specifici perché vivono nella perenne emergenza, proprio perché tutti i giovani di belle speranze si rivolgono a loro per essere aiutati a gestire problematiche che chiaramente non sono in grado di gestire. Il risultato è che le imprese perdono terreno nel mercato globale, rimangono obsolete, non innovano, perdono il know-how il tutto in nome del presunto risparmio nel breve periodo.

Questa è la risposta che mi sento di dare, non è un caso che le nostre imprese arrancano e non trovano vie di uscita a una crisi che pur attanagliando il mondo intero, da noi sta facendo danni ben più grandi che altrove. Non voglio banalizzare affermando che questo sia il solo motivo, sappiamo bene che in Italia i problemi sono molti, sia dal lato legislativo che dal lato della tassazione del lavoro dipendente e molto altro, dico solo che questa scelta di eliminare il middle management è tutto fuorchè strategica per il futuro delle imprese. Rivalutiamo i 50enni e le loro conoscenze, sono un patrimonio per l’azienda Italia, lo dicono anche le ricerche effettuate dall’università di Haifa in Israele e pubblicate qualche settimana fa su Panorama, fatta tra manager dell’High Tech, industria ed infrastrutture, emerge infatti che i manager tra i 50 ed i 59 anni sono tra i più attivi con un picco di prestazioni a quota 57. Ricerca questa che fa il pari con un articolo di mercoledì scorso apparso sul Corriere della Sera in cui una associazione inglese di nome “Love to learn” ha promosso un sondaggio tra 1000 uomini e donne 50 enni facendo emergere che oggi la mezza età si raggiunge a 55 anni contrariamente ai dati ottenuti in una precedente rilevazione in cui il confine era stato posto a soli 36 anni.

Questo traslare in avanti delle nostre vite è testimoniato nuovamente da Panorama con un articolo di qualche settimana prima in cui, il neuro scienziato Jay Giedd del National Institute of Mental Health americano, afferma che il cervello dell’uomo tende a raggiungere la piena maturazione solo ai 30 anni a causa dello sviluppo ultimo della corteccia prefrontale che è responsabile della pianificazione, delle priorità e del controllo degli impulsi.

Fortunatamente molte aziende si stanno ricredendo, le multinazionali a dire il vero sono sempre rimaste strutturate, ma le PMI sono state tra le prime a “tagliare” l’esperienza credendola un costo anziché una risorsa, tornare a scoprire il prezioso supporto di un 50enne di esperienza può essere una valido supporto per il piccolo e medio imprenditore per rilanciare la propria azienda e tornare a primeggiare nel business.

Alla prossima!