Sindacati

Articolo 18: falso mito su cui si decide il futuro di molti ma non dei lavoratori.

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L'articolo 18... un falso problema
L’articolo 18… un falso problema

Mi ero ripromesso di aspettare, di attendere cosa uscirà da questa bagarre in corso nel parlamento su questo benedetto “Jobs Act”, ma dopo le ultime uscite su stampa e telegiornali dei contendenti (governo, minoranza PD, sindacati, opposizione e via dicendo) francamente non riesco più a starmene zitto.

Lavoro nelle risorse umane ed in particolare mi occupo di ricollocamento professionale, quel famoso outplacement che potrebbe diventare obbligatorio se passeranno gli emendamenti sul contratto a tutele crescenti; questo significa che a me le balle non le raccontate.

Il dibattito in corso è francamente privo di senso, diciamocelo chiaro non serve l’articolo 18 per licenziare oggi i lavoratori; le condizioni economiche attuali unite alla recente Riforma Fornero danno già oggi alle aziende tutte le armi per poter mandare a casa i collaboratori con o senza articolo 18. Come? Semplice… su tutti c’è il licenziamento per giustificato motivo oggettivo che prevede in caso di motivi oggettivi appunto (basta che il fatturato dell’azienda sia calato ad esempio) il licenziamento del collaboratore e su questo l’articolo 18 non può proprio nulla. La procedura ideata dalla Fornero prevede che molto semplicemente venga comunicato il licenziamento al collaboratore con le ovvie motivazioni e che dopo pochi giorni si arrivi davanti alla Direzione Territoriale del Lavoro per tentare la conciliazione, se questa non viene raggiunta si procede comunque con il licenziamento e si andrà in causa con il risultato che se, al massimo, venisse rilevato qualche vizio formale si arriverà ad un risarcimento tra le 12 e le 24 mensilità ma senza che scatti la reintegra, che scatta solo nel caso in cui ci fosse manifesta insussistenza. Risultato… il lavoratore è comunque fuori dall’azienda, al giorno d’oggi con le condizioni economiche attuali pensate sia difficile per un’azienda dimostrare di avere personale in esubero?

Capite bene quindi come l’articolo 18 sia un falso problema, a conferma di questo sarebbe interessante che ci venissero comunicati i dati relativi alle conciliazioni, vi assicuro che dall’entrata in vigore della Riforma Fornero sono aumentate a dismisura ma in pochi lo dicono (qualche mese fa ci fu un articolo del Sole 24 Ore che confermava questa mia affermazione) ma questo chi non è del settore non lo sa per cui crede ancora che l’articolo 18 sia un baluardo da difendere ad ogni costo e posso capirlo. Quello che non capisco è chi invece sa benissimo come stanno le cose ma continua a sventolare la bandiera dell’articolo 18 solo per interessi personali non dei lavoratori: parlo dei sindacati che conoscono bene la situazione reale (lo dimostra quanti posti di lavoro si sono persi dall’inizio della crisi ad oggi), lo sanno quelli della minoranza del PD che stanno solamente tentando con questa avversità a Renzi di recuperare consensi che hanno perso in anni di nullafacenza, lo sa lo stesso Renzi ed il governo così come tutta la classe politica; ecco perchè dico che su questa battaglia si decide il futuro di molti ma non dei lavoratori.

Sappiamo tutti cosa andrebbe fatto per rilanciare l’occupazione, l’abbassamento del cuneo fiscale per le aziende e richiamare così investitori esteri, facendo diventare l’Italia un paese nuovamente interessante in cui investire, unitamente ad una semplificazione della burocrazia, al termine della dualità tra lavoro pubblico (i veri protetti) e quello privato, al tornare a puntare sulla artigianalità tipica dell’Italia (pochi giorni fa alla settimana della moda a Milano la maison Gucci diceva “il vero lusso è l’artigianato”), al capire che il VERO “Made in Italy” è ancora il nostro fiore all’occhiello fuori dai nostri confini. Ma di questo non si parla o quando qualcuno prova a farlo ci si gira dall’altra parte facendo finta di non sentire riportando l’attenzione su un articolo 18 che oggi non esiste già più.

Alla prossima!!

Outplacement: mettiamo le cose in chiaro.

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Outplacement: facciamolo rendere al massimo
Outplacement: facciamolo rendere al massimo

Dopo qualche tempo eccomi tornare su un aspetto della mia professione, quello di consulente di ouplacement; ci torno perchè negli ultimi tempi mi sono imbattuto in diverse situazioni in cui, la concorrenza da un lato e le parti sociali dall’altro, stanno in alcuni casi rischiando di minare non solo il mercato dell’outplacement ma anche l’efficacia stessa dello strumento.

Ci sono due ordini di motivi per cui ho deciso di scrivere questo post entrambi però sono al servizio non mio e della mia professione ma di chi questo strumento è chiamato ad utilizzarlo e/o proporlo nelle trattative sindacali. In pratica cosa succede?

Il primo spunto parte dal fatto che la crisi ha colpito tutti i tipi di industria anche quella dei servizi, in questa categoria rientrano anche le aziende che si occupano di fornire servizi in ambito risorse umane. Come certamente saprete l’articolo 4 del Dlgs 276/03 al comma uno prevede quanto segue:

1. Presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e’ istituito un apposito albo delle agenzie per il lavoro ai fini dello svolgimento delle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale. Il predetto albo e’ articolato in cinque sezioni:
a) agenzie di somministrazione di lavoro abilitate allo svolgimento di tutte le attività di cui all’articolo 20;
b) agenzie di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato abilitate a svolgere esclusivamente una delle attività specifiche di cui all’articolo 20, comma 3, lettere da a) a h);
c) agenzie di intermediazione;
d) agenzie di ricerca e selezione del personale;
e) agenzie di supporto alla ricollocazione professionale.

In questo elenco come vedete le società che si occupano di outplacement (supporto alla ricollocazione professionale) sono riportate alla lettera e) la cosa buffa, se vogliamo chiamarla in questo modo, è che chi sta alla lettera a) può fare tutto quello che c’è sotto mentre non vale il contrario. Tutto questo per dire che sino ad oggi ognuno si è occupato del suo core business ma in periodi di magra come quelli odierni, in molti di quelli che non si trovavano alla lettera e) hanno visto come business la possibilità di iniziare a dedicarsi all’outplacement. Il problema è che non ci si inventa in questo settore perchè si rischia di fare dei disastri colossali in particolare sui contenuti del servizio, guarda caso è proprio quello che sta accadendo, mi sono imbattuto personalmente in società, di cui chiaramente non farò il nome, che stanno mascherando dietro la parola outplacement un servizio che non ha nulla a che vedere con il servizio di ricollocazione professionale (per non parlare del lato economico). Risultato? Candidati insoddisfatti, risultati scarsi per non dire nulli, sindacati che perdono la già poca fiducia nel servizio.

La professionalità, anche in questo caso, deve essere alla base di tutto; con questo non voglio dire che il mercato deve rimanere confinato tra le società che da sempre si occupano di ricollocamento, ci mancherebbe altro, voglio però sottolineare che non ci si può improvvisare, un ingresso in questo mercato va pianificato nel tempo e le persone coinvolte devono essere formate o in alternativa, provenire dal settore con comprovata esperienza; altrimenti la cosa non solo tornerà indietro come un boomerang sulla reputazione della società, ma contribuirà a distruggere la credibilità dello strumento.

Voglio chiudere con una nota dedicata alle parti sociali, l’outplacement è un ottimo strumento per trovare nuove opportunità di lavoro ed una delle poche politiche realmente attive, per far si che funzioni occorre che gli accordi sindacali siano redatti in modo tale da renderlo funzionale al massimo; non sempre questo accade, il risultato è che, anche in questo caso, alla fine i risultati rischiano di essere nettamente inferiori alle aspettative ed alle reali possibilità.

Tanti auguri di Buona Pasqua a voi ed alle vs. famiglie.

Alla prossima!!

SVEGLIAMOCI, oppure affondiamo…

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"Cambiare" questa la parola d'ordine
“Cambiare” questa la parola d’ordine

Pochi sanno che sono consigliere comunale in un piccolo paese della Vallesina (Marche), una esperienza che ho voluto compiere con altri semplici cittadini, stufi di lamentarsi senza fare nulla per il bene del nostro Paese, una lista civica trasversale la cui esperienza sta volgendo al termine. Venerdì scorso il Sindaco ha voluto indire un consiglio comunale aperto sullo stato occupazionale della Vallesina a cui hanno partecipato l’Assessore Regionale al Lavoro Marco Luchetti, il commissario della Provincia Patrizia Casagrande, esponenti del mondo sindacale locale, delle banche e di Confindustria.

Nel mio intervento sono tornato a calcare la mano in merito alla parola cambiamento di cui ho più volte discusso in questo blog e negli incontri a cui ho preso parte. Vi riporto un passaggio dell’intervento, sono fermamente convinto che il Paese tutto debba svegliarsi e mettere in atto il cambiamento, altrimenti il rischio è affondare inesorabilmente.

“La situazione occupazionale della Vallesina è sicuramente allarmante, corrisponde all’andamento regionale che rispecchia in gran parte il dato nazionale anche se con qualche punto percentuale migliore.

Il Rapporto dell’industria marchigiana del 2012 presentato nelle sede di Banca Marche qualche mese fa ci ha consegnato dati allarmanti circa la capacità di fare impresa delle aziende marchigiane, in particolare delle PMI che come tutti sappiamo costituiscono la spina dorsale del modello economico marchigiano.

La parola crisi deriva dal greco “krino” che significa discernere, valutare; non ha di per se l’accezione negativa che tutti noi tendiamo a dare, rappresenta indubbiamente un momento di riflessione. Ritengo con ragionevole certezza di poter dire che crisi è un sinonimo di cambiamento, non a caso la crisi arriva quando qualche cosa è cambiato nel mercato ed è solo con un momento di riflessione a cui far seguire importanti cambiamenti, che si può pensare di uscirne.

Cambiamento, questa è la parola chiave!! Una parola con cui molti tendono a riempirsi la bocca ma che pochi o nessuno al momento, mettono realmente in atto.

Tutti gli attori presenti nel mercato dl lavoro: imprese, lavoratori, istituzioni ed organizzazioni sindacali e datoriali, hanno l’obbligo di capire che questa non è una normale oscillazione del ciclo economico, ma una crisi strutturale dovuta ad un mutamento profondo degli assetti economici mondiali che ha spostato gli equilibri e fatto crollare in pochissimo tempo, teorie economiche ritenute inossidabili. Si pensi al famoso modello marchigiano, tanto osannato ed insegnato nelle scuole ed università italiane per decenni ma che oggi è diventato carta straccia.

Cambiamento dunque perché o si cambia o si soccombe! Vale per l’impresa, lo dicevo poco fa, piccolo non è più bello, oggi per competere occorre aumentare le dimensioni, occorre fare sistema, occorre fare rete, rete di imprese che insieme, con maggiori energie, competenze e potere economico possono affrontare i mercati internazionali. Gli imprenditori devono uscire dalla logica che il mio dirimpettaio è il mio nemico e capire che solo unendo le forze per studiare nuovi prodotti, ottenere credito, avere maggiore potere contrattuale e capacità produttiva si può affrontare la concorrenza internazionale e penetrare in mercati che da soli sarebbero impossibili da affrontare.

Internazionalizzare dunque non delocalizzare, una politica questa che può essere sembrata vincente nel breve periodo perché ha aumentato i profitti ma che è palesemente perdente nel medio lungo perché distrugge ricchezza e crea povertà, una povertà che inevitabilmente si ritorce contro le stesse aziende che l’hanno praticata.

L’Italia ha delle peculiarità e su quelle deve puntare: l’eccellenza nella moda, nel design, nel turismo, nell’alimentare, nel mercato del lusso, nell’alta tecnologia. Occorre innovare e farlo realmente, puntare su produzioni povere non è più pensabile quando all’estero questo tipo di produzioni viene realizzato a costi palesemente inferiori.

Va abbassato il cuneo fiscale per le imprese, non è pensabile che un lavoratore costi all’azienda oggi il doppio se non il triplo di quello che percepisce realmente, è facile capire che questa è una tattica perdente per la competitività delle imprese e per i lavoratori stessi ma anche per possibili investitori stranieri.

Il sistema finanziario deve tornare a concedere credito alle aziende ed ai cittadini, lo ha detto anche il Governatore della Banca Centrale Europea Draghi che ha dimostrato con i fatti di voler creare condizioni di miglior favore per le imprese e per la gente, condizioni però bloccate dalle banche che a parole si dicono disponibili ad andare incontro alle imprese ma che nei fatti continuano a tenere i rubinetti ben serrati.

Questi passi vanno fatti uniti ed insieme! Perché mai come oggi l’unione fa la forza, credo che la nuova presidenza appena insediata di Confindustria Ancona si voglia rendere interprete di questo desiderio di cambiamento imprenditoriale almeno questo è quello che si è evinto dalle parole di insediamento del Presidente Claudio Schiavoni AD di IMESA, una delle poche aziende della Vallesina che è un esempio di crescita da anni e che ancora oggi, in questa situazione, è in continuo sviluppo anche grazie ai paesi Esteri.

Cambiamento anche nei lavoratori, inutile prenderci in giro, lo dico da addetto ai lavori, il mercato del lavoro è cambiato, pensare che tutto tornerà come prima è anacronistico e assolutamente utopico; il posto fisso come lo intendevano i nostri genitori non esiste più, nell’arco della vita professionale cambiamo e cambieremo almeno 4/5 volte (dati del Ministero del Lavoro) il ns. percorso professionale ed i nostri figli probabilmente ne cambieranno 10 se non di più, a volte per ns. volontà, altre, come nel caso della crisi che stiamo attraversando, per volontà altrui.

Cambiare lavoro non deve essere vissuto come una minaccia, ma come una opportunità di crescita, significa rinnovarsi, aiuta ad innovare, ad acquisire nuove competenze, funge da stimolo a non adagiarsi su quanto raggiunto per scalare posizioni più migliori.

In un mercato del lavoro che è mutato, perseverare con le vecchie logiche di sostegno al lavoratore è una strategia non solo perdente per il lavoratore stesso ma anche per i conti di imprese e Stato. Dobbiamo mettere in pista nuovi strumenti a sostegno dell’occupabilità e del lavoratore.

In questo contesto la Riforma Fornero è stata solo un maldestro tentativo di cambiamento, iniziato con tutte le buone intenzioni ma naufragato clamorosamente al termine dell’iter di approvazione a causa dei veti incrociati di tutte le parti chiamate a dire la loro, con il risultato di partorire un obrobrio che invece di creare occupazione l’ha palesemente ridotta, modificando qualcosa solo in ambito di uscita del lavoratore. Sono sempre stato e continuo ad esserlo un fermo sostenitore della flexsecurity del prof. Ichino, l’unica vera riforma seria del mercato del lavoro da applicare in toto per facilitare il cambiamento che stiamo vivendo e per assicurare ai lavoratori maggiori opportunità occupazionali.

Veniamo quindi al cambiamento nelle relazioni industriali e nelle istituzioni.

Gli ammortizzatori sociali sono sacrosanti, ma vanno usati non abusati, conosco storie di lavoratori che sono in Cassa Integrazione da anni, in alcuni casi anche da decenni e che si trovano oggi, come ieri, senza alcuna possibilità di rientrare nel posto di lavoro. Con il risultato di essere rimasti fuori dal mercato del lavoro per anni, aver perso competenze e ritrovarsi oggi in condizioni di gran lunga peggiori rispetto all’inizio del periodo di cassa.

Occorre affiancare agli ammortizzatori sociali che sono per l’appunto passivi, politiche attive del lavoro adatti ai tempi mutati, che siano efficaci nell’ottica di assicurare NON la stabilità del posto di lavoro ma la CONTINUITA’ tra le diverse successive collocazioni lavorative, da realizzarsi innanzitutto attraverso un corretto incontro tra domanda e offerta. Fornire nei momenti di cassa integrazione momenti formativi SERI per permettere ai lavoratori di incrementare le proprie competenze e migliorare la propria occupabilità. Questo, secondo me, significa essere socialmente responsabili del futuro dei propri collaboratori e cittadini.

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Questi dati fanno chiaramente capire come si possano mettere in pista, anche usufruendo di fondi europei come avviene in almeno tre regioni dl nord Italia, servizi che supportino il lavoratore nel trovare queste opportunità che il mercato comunque offre.

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In definitiva occorre che alle misure a sostegno della crescita del sistema Paese, di cui oggi tanto si discute, vengano affiancate altrettante politiche attive a sostegno dell’occupazione e del lavoratore che, in caso di perdita del posto di lavoro ed in ottica di responsabilità sociale, non va abbandonato a se stesso ed al fai da te, ma accompagnato ed orientato ad intraprendere nuovi percorsi professionali e incoraggiato a cogliere nuove opportunità magari più interessanti e stimolanti.

Cambiamento dunque, questo il verbo che dobbiamo tutti impegnarci a mettere in pratica se vogliamo uscire da questo pantano, ritrovando un modo etico di fare impresa basato sulla coesione di tutte le forze in campo: politiche, imprenditoriali, sindacali ed umane.

Chiudo con una frase in cui mi sono imbattuto solo ieri, è di Robert Kennedy e dice “Il cambiamento, con tutti i rischi che comporta, è la legge dell’esistenza”.”

Alla prossima!!

AMMORTIZZATORI SOCIALI: vogliamo rivederli??

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In tutto questo parlare di riforme strutturali del sistema Italia, spiccano senza dubbio le riforme inerenti il mercato del lavoro, ne ho parlato già diverse volte e non finirò certo oggi di farlo, visto che siamo solo agli inizi della trattativa tra le parti sociali ed il Ministro Fornero.

Oggi però voglio toccare il tema degli ammortizzatori sociali, un tema senza dubbio scottante perché va a toccare il sostegno ai redditi di tutti coloro oggetto di CIG, CIGS, mobilità, disoccupazione e chi più ne ha più ne metta. Non occorre un genio per capire che, in un momento come quello che sta attraversando il nostro Paese, discutere di una riforma degli ammortizzatori può sembrare fuori luogo, personalmente credo non sia così e tenterò di spiegarvi i motivi.

Parlo a ragion veduta, nel mio lavoro di consulente di outplacement, specie quando si tratta di gestire programmi collettivi, capitano operai ed impiegati che affrontano il programma di ricollocazione mentre sono ancora in cassa integrazione straordinaria; ebbene spesso, invece di accettare un nuovo lavoro preferiscono rinunciare al ricollocamento per rimanere in cassa integrazione (magari fanno anche un secondo lavoro in nero). La rimostranza che potrebbe essere fatta e che si rifà anche alla normativa in atto è “ma se la proposta non è congrua con la posizione da loro ricoperta precedentemente fanno bene a dire di no”; chiaramente non stiamo parlando di offerte di lavoro palesemente inferiori ma spesso equivalenti o leggermente inferiori a quella da cui si è usciti; occorre infatti ricordare che rimanere per troppo tempo fuori dal mercato del lavoro non è mai salutare, men che meno in un periodo come quello attuale, ecco perché suggerisco sempre di accettare proposte di lavoro anche se sono leggermente inferiori a quella da cui si esce, rimettersi in gioco per poi risalire.

Quello che però voglio far notare in questo post è l’assurdità dell’attuale sistema di gestione degli ammortizzatori sociali, in un caso come quello sopra ad esempio credo sia giusto che il lavoratore perda il diritto di rimanere in cassa.

L’altro aspetto errato riguarda le imprese, spesso viene fatto un uso improprio dell’ammortizzatore sociale, in un periodo come quello di oggi, la trafila: CIG, CIGS, CIG in deroga e mobilità nascondono solamente un destino dei lavoratori coinvolti già segnato sin dall’inizio e questo lo sanno sia le imprese che i sindacati. L’uso della trafila è solo un rinvio del problema, una presa in giro per i lavoratori unito ad uno sperpero di soldi che, come abbiamo visto sopra, serve solo ai lavoratori per avere una retribuzione a cui aggiungerne spesso un’altra in nero (non sempre chiaramente), rimanere fuori dal mercato del lavoro per troppo tempo con il rischio di non rientrarci più ed alle imprese ad avere la coscienza pulita rimandando una scelta già decisa. Lo sperpero di risorse è ancor più evidente se parliamo di cassa in deroga, in buona parte a carico dello Stato e quindi dei contribuenti.

Il mio può sembrare un discorso cinico, ma non lo è, il problema dell’occupazione non si risolve con l’uso distorto degli ammortizzatori sociali, ma ad esempio con politiche che facciano in modo che le imprese non abbandonino il suolo italiano delocalizzando all’estero per riuscire a competere con imprese estere che hanno un costo del lavoro ridicolo (basta vedere cosa succede nello stabilimento cinese a cui la Apple ha deciso di affidare la produzione di iPhone, iPad ecc.). Dall’altra parte anche i lavoratori, occorre dirlo fuori dai denti perché tutti gli operatori HR lo sanno, senza bisogno di fare di tutta un’erba un fascio, devono capire che l’ammortizzatore sociale non è una indennità che gli permette di stare a casa in panciolle, serve per dare un sostegno economico in un periodo in cui il lavoratore deve darsi da fare per trovare un nuovo lavoro, anche attraverso politiche attive del lavoro come l’uso di un programma di ricollocamento.

Ecco quindi che una riforma urge, a maggior ragione in un momento come quello attuale in cui l’uso dell’ammortizzatore dall’inizio della crisi è aumentato esponenzialmente.

Alla prossima!!

ARTICOLO 18: ma è davvero un tabù?

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In questi mesi la riforma del lavoro è balzata improvvisamente alla ribalta, con il risultato che oggi tutti parlano di temi che con molta probabilità in pochi conoscono realmente, con risultati pessimi.

Il mio lavoro in ambito risorse umane e la passione per le materie che lo riguardano, mi hanno portato a fare numerose letture e chiaccherate con persone esperte; mi sono fatto una idea più chiara su questo tentativo di riforma, che voglio condividere con voi.

Fulcro della riforma è il famigerato articolo 18, ovvero quell’articolo dello Statuto dei Lavoratori (redatto nel lontano 1970) che sancisce il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato; la norma così descritta sembra essere sacrosanta, ma se andiamo ad analizzarla in profondità scopriamo che così non è, ecco il perché.

Per prima cosa l’articolo in questione si applica alle aziende che occupano più di 15 lavoratori, per tutte le altre no; in Italia ufficialmente ci sono molte più aziende che hanno 15 o meno dipendenti (quindi non rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 18) di quelle che ne hanno più di 15; ma se analizziamo bene i numeri scopriamo che la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti lavora nelle aziende sopra i 15 dipendenti, perchè in quelle tante “aziende” classificate nella soglia inferiore, in realtà si annidano le partite iva cosiddette “fasulle”, ovvero quei lavoratori a p.iva che in realtà sono mono-committenti (lavorano per un’unica azienda), sono quindi in realtà lavoratori dipendenti a tutti gli effetti ma non sono assunti dall’azienda, una “regolarissima” forma di elusione proprio dell’articolo 18.

Il secondo aspetto di cui tenere conto riguarda il fatto che l’applicazione dell’articolo 18 genera delle problematiche pesantissime per l’azienda che lo subisce (le vedremo dopo) tanto da indurre le aziende a ridurre il numero dei lavoratori subordinati, aumentando l’uso di tutte quelle forme di lavoro che evitano all’azienda stessa l’assunzione diretta di personale, con il risultato che è oggi sotto gli occhi di tutti, il precariato a vita. In sostanza oggi in Italia, come dice Ichino, ci sono lavoratori di serie A (costituita dai lavoratori subordinati regolari assunti a tempo indeterminato) e di serie B (tutti gli altri); i primi godono di tutte le protezioni del caso, i secondi di poco o nulla a seconda della tipologia di contratto con cui sono assunti.

Parlavo di problematiche legate all’applicazione dell’articolo 18, riguardano sostanzialmente il fatto che se una azienda va in giudizio con un dipendente cha ha impugnato il licenziamento ritenendolo ingiusto (non entro nel merito se lo sia realmente o meno), sa quando inizia ma non sa quando e come finisce. I processi di diritto del lavoro durano in media 6 anni, con record negativi di 12 e record positivi di tre/quattro anni; anche ipotizzando che l’azienda possa aver vinto tutte le battaglie, se non vince l’ultima è comunque chiamata a: reintegrare il lavoratore, pagargli tutte le mesilità dal momento del licenziamento (rivalutate chiaramente), pagare i contributi e relativa sanzione per averli omessi durante tutta la durata del processo, le relative spese processuali e se il lavoratore non vuole essere reintegrato, pagare una indennita di 15 mensilità al lavoratore stesso. Capite bene come ci siano aziende (PMI in particolare) che hanno rischiato, per un lavoratore, di chiudere e mettere sulla strada tutti i restanti lavoratori. Risulta chiaro, a fronte di quanto riportato, che se una azienda decide di ricorrere in giudizio, lo fa a ragion veduta eppure spesso non basta, i rischi di uscire sconfitti in giudizio sono elevati come abbiamo visto; logica conseguenza per le aziende, specialmente medio piccole, è quella di salvaguardarsi da questo rischio usufruendo ed abusando spesso di forme di lavoro precario, vuoi per riuscire  a non superare la fatidica soglia dei 15 dipendenti, vuoi perchè in quel modo sono liberi di chiudere il rapporto di lavoro quando vogliono, non è quindi l’articolo 18 un freno allo sviluppo delle aziende e del mercato del lavoro che dovrebbe proteggere??

Ci sarebbe ancora molto da parlare, chiudo con una annotazione nei confronti del sindacato (qualsiasi sigla), è indubbio che la presenza del sindacato è stata ed è fondamentale per la salvaguardia dei diritti dei lavoratori, occorre però che oggi facciano uno scatto in avanti e non mettano veti a prescindere a qualsiasi riforma del diritto del lavoro che, come abbiamo visto, sono spesso controproducenti per gli stessi lavoratori che dovrebbero proteggere. Credo che la riforma proposta da Ichino sia una delle proposte migliori da prendere in esame e su cui il governo tecnico sta lavorando, obbligare tutti all’assunzione a tempo indeterminato in cambio di una maggiore flessibilità in uscita per motivi economico-organizzativi con relative indennità e sostegno alla ricollocazione, aprirebbe sicuramente le porte allo sviluppo e farebbe terminare questa disparità enorme tra lavoratori di serie A e di serie B.

Alla prossima